di Michele Turrisi
Il 9 gennaio di tre anni fa se ne andava un uomo che ha combattuto con coraggio, determinazione e fiducia speciali quella che amo definire – parafrasando laicamente l’espressione paolina contenuta nella Seconda lettera a Timoteo 4,7 – «l’eccellente battaglia della Ragione». Ma sappiamo benissimo che non tramonterà la lezione di questo riconosciuto maestro del Dubbio e della Ragione. Il quale è stato anche maestro d’umiltà intellettuale: dopo aver insegnato tanto a tanti, diceva di trovarsi ancora alle radici dell’albero della conoscenza.
Tra gli autori verso i quali sono maggiormente debitore figura senz’altro Norberto Bobbio, il cui conforto mi è stato prezioso lungo il difficile cammino che conduce al Libero Pensiero. Sì, devo molto a questo profondo ed estremamente lucido uomo di ragione. Mi riferisco in particolare al Bobbio degli scritti morali, all’intellettuale che, diffidando di tutte le fedi, unicamente con il lume («lumicino», diceva lui) della ragione cerca appassionatamente di penetrare il mistero in cui tutti siamo immersi. Egli ha fermamente voluto ed efficacemente saputo essere sino alla fine «per i diritti del dubbio contro le pretese del dogmatismo, per i doveri della critica contro le seduzioni della infatuazione, per lo sviluppo della ragione contro l’impero della cieca fede, per la veridicità della scienza contro gli inganni della propaganda» (così Bobbio definì nel lontano 1951 il “modo d’impegnarsi” proprio dell’uomo di cultura).
Mi sia concesso di riportare qui di seguito alcune riflessioni del filosofo torinese che tanto hanno significato per me, e che dovrebbero forse significare qualcosa per ogni autentico aspirante uomo di ragione.
«… Di fronte ai grandi problemi mi ritengo un uomo del dubbio e del dialogo. Del dubbio, perché ogni mio ragionamento su una delle grandi domande termina quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un’altra grande domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello che so metto alla prova continuamente con coloro che presumo ne sappiano più di me […] Ho sempre avuto un grande rispetto per i credenti, ma non sono un uomo di fede. La fede, quando non è un dono, è un’abitudine; quando non è né un dono né un’abitudine, deriva da una forte volontà di credere. Ma la volontà comincia dove la ragione finisce: io mi sono sinora arrestato prima. Mi è anche completamente estranea la fede nella ragione. Non ho mai avuto la tentazione di sostituire la Dea Ragione al Dio dei credenti. Per me, la nostra ragione non è un lume: è un lumicino. Ma non abbiamo altro per procedere nelle tenebre da cui siamo venuti alle tenebre verso le quali andiamo. Com’è nato l’universo? Come finirà? Che parte ha in esso l’uomo, questo essere che, a differenza di tutti gli altri esseri viventi che conosciamo, non solo è nel mondo ma s’interroga sul suo posto nel mondo, o, per usare il termine classico di tutta la nostra tradizione, sul suo destino che è per essenza “cieco”? Che è immerso nel male dell’universo, o almeno in quello che secondo il suo giudizio è male, e si pone la domanda, da quando ha cominciato a riflettere sulle cause e sui fini: “Perché il male?”, una domanda cui non è mai riuscito a dare una risposta convincente? Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che non vi è riuscita la scienza, e qui intendo per “scienza” il complesso delle conoscenze acquisite con l’uso della nostra intelligenza. Ma vi sono riuscite le religioni? Parlo di risposte convincenti, di cui questa stessa intelligenza si possa appagare, non di risposte consolatorie e quindi illusorie, che appagano l’animo di coloro che vogliono, disperatamente vogliono, per l’enormità e l’insopportabilità del male di cui soffrono, essere consolati. Al contrario del lumicino della ragione, la fede illumina, ma spesso, per troppo illuminare, acceca. Donde nascono, se non da questo accecamento, gli aspetti perversi della religione? L’intolleranza, la coazione a credere, la persecuzione dei non credenti, lo spirito di crociata? Non riprenderei questo vecchio argomento, tacendo il quale peraltro non si comprende la battaglia dei “lumi” così caratteristica del pensiero moderno, se non fosse che questo stesso argomento viene continuamente usato con la stessa partigianeria per imputare al processo di secolarizzazione tutte le perversioni del nostro secolo, come se l’età più cruenta prima delle due guerre mondiali non fosse stata quella delle guerre di religione».
(Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d’ombra, Milano 1994, pp. 8, 187-188).
«Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi, però distinguo la religione dalla religiosità. Religiosità significa per me, semplicemente, avere il senso dei propri limiti, sapere che la ragione dell’uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infimo rispetto alla grandiosità, all’immensità dell’universo. L’unica cosa di cui sono sicuro, sempre stando nei limiti della mia ragione – perché non lo ripeterò mai abbastanza: non sono un uomo di fede, avere la fede è qualcosa che appartiene a un mondo che non è il mio – è semmai che io vivo il senso del mistero, che evidentemente è comune tanto all’uomo di ragione che all’uomo di fede. Con la differenza che l’uomo di fede riempie questo mistero con rivelazioni e verità che vengono dall’alto, e di cui non riesco a convincermi […] Ma quando sento di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una risposta alle domande ultime, la mia intelligenza è umiliata. Umiliata. E io accetto questa umiliazione. La accetto. E non cerco di sfuggire a questa umiliazione con la fede, attraverso strade che non riesco a percorrere. Resto uomo della mia ragione limitata – e umiliata. So di non sapere. Questo io chiamo “la mia religiosità” […] Io non credo […] Anch’io sono cresciuto, come quasi tutti in questo paese, in una famiglia cattolica, e ho avuto una formazione cattolica. Preghiere, preghiere, preghiere… Le ho talmente ripetute (sia in latino, come si usava una volta, sia in italiano) che le ho quasi dimenticate. Ho fatto la prima comunione, e anche un matrimonio religioso (anche mia moglie però non è credente). E alla domanda su quando e perché ho perduto la fede non è facile rispondere. Forse verso i vent’anni. Certo, lo studio della filosofia, anche. Tutte queste domande sui problemi di metafisica, diciamo così, e il rendersi conto che le risposte della fede implicavano credenze difficili da accettare. La credenza nei miracoli, ad esempio, per un razionalista è la cosa più assurda. Altrettanto è il dover credere in ciò che ad ogni essere di ragione appare come mito, cominciando dal peccato originale […] Ho continuato a riflettere sui grandi temi dell’esistenza e nessuna delle risposte della religione mi ha mai convinto […] La scienza qualche progresso lo ha fatto. La fede non risponde alle domande, può solo evitarle. Questo è il suo vantaggio e la sua debolezza, almeno di fronte alle persone che ritengono che l’unico lume legittimo – per quanto piccolo – con cui possiamo dire sì o no, vero o falso, è la ragione. E l’esperienza. La ragione e l’esperienza sono i due lumi dell’uomo così come è. La religione è una creazione umana»
(«Religione e religiosità», testimonianza apparsa su MicroMega n. 2/2000, pp. 7-10).