DISEGNO DI LEGGE
d’iniziativa del senatore CALVI
COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 21 FEBBRAIO 2007
Disposizioni in materia di non punibilità del medico nell’applicazione delle dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari
Onorevoli Senatori,
la triste vicenda della morte di Piergiorgio Welby, copresidente dell’Associazione «Luca Coscioni» affetto da una forma grave di distrofia muscolare, deve far riflettere su un problema delicatissimo, quale quello di consentire una morte dignitosa, problema divenuto, ormai, improcrastinabile.
Il presente disegno di legge vuole rappresentare non solo una riposta agli autorevoli propositi manifestati dal Presidente della Repubblica in seguito alla lettera inviata il 21 settembre 2006 dal signor Piergiorgio Welby, ma anche una risposta concreta alle diffuse istanze dell’opinione pubblica, affinché sia introdotta una normativa tale da consentire la possibilità di porre termine alla propria esistenza, divenuta insostenibile, seppur entro limiti e condizioni ben circoscritti.
Proprio alla luce di quanto avvenuto nel caso di Piergiorgio Welby, è evidente una forte difficoltà da parte dei medici che si trovano in molti casi combattuti di fronte alla difficile scelta di proseguire le cure mediche nel caso di situazioni divenute ormai croniche e prive di speranza oppure di interrompere i trattamenti sanitari, conformemente a una libera richiesta del malato.
A fronte dell’evoluzione inarrestabile delle scoperte scientifiche che consentono un sempre maggior prolungamento «artificiale» della vita, non c’è purtroppo, nel nostro sistema giuridico, una previsione normativa che definisca chiaramente il concetto di accanimento terapeutico.
In particolare, la stessa ordinanza emessa dal Tribunale di Roma il 16 dicembre 2006, al fine di deliberare sulla richiesta di Piergiorgio Welby di interrompere ogni trattamento medico nei suoi confronti, recita: «Il divieto di accanimento terapeutico è un principio solidamente basato sui principî costituzionali di tutela della dignità della persona […]. Esso, tuttavia, sul piano dell’attuazione pratica del corrispondente diritto del paziente a esigere e a pretendere che sia cessata una determinata attività medica di mantenimento in vita (il problema si è posto per l’alimentazione e l’idratazione forzate e, come nel caso di specie, per la respirazione assistita a mezzo di ventilatore artificiale), in quanto reputata di mero accanimento terapeutico, lascia il posto all’interpretazione soggettiva e alla discrezionalità nella definizione di concetti sì di altissimo contenuto morale e di civiltà […], ma che sono indeterminati e appartengono a un campo non ancora regolato dal diritto e non suscettibile di essere riempito dall’intervento del giudice».
Il ricorso presentato da Piergiorgio Welby quindi è stato dichiarato «inammissibile». Nell’ordinanza si riconosce il diritto del paziente di chiedere che gli venga interrotta la respirazione assistita, ma si sottolinea il fatto che tale diritto non è attualmente tutelato dall’ordinamento giuridico e che pertanto per colmare questo vuoto normativo è necessario l’intervento del legislatore.
In risposta a questo provvedimento, la Procura della Repubblica di Roma ha presentato ricorso al Tribunale di Roma, dichiarando che «l’ordinanza è affetta da una palese contraddizione».
L’ordinanza, infatti, pur riconoscendo il diritto di Piergiorgio Welby a interrompere il trattamento che lo teneva in vita, aveva evidenziato un vuoto legislativo che avrebbe impedito una decisione del tribunale. I pubblici ministeri della Procura di Roma invece hanno contestato che proprio questi «assunti dimostrano il vizio logico dell’ordinanza, che dalla premessa (corretta) secondo cui nel nostro ordinamento esiste un divieto di accanimento terapeutico e un correlativo diritto di pretenderne la cessazione, perviene a una conclusione (del tutto erronea) per cui questo diritto non può essere tutelato a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuative».
In particolare per i pubblici ministeri che hanno impugnato l’ordinanza sul caso Welby, dagli articoli 32 e 13 della Costituzione si «evince l’esistenza di un vero e proprio diritto a non curarsi, ossia di un’assoluta libertà del paziente di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia faccia il suo corso».
Ciò detto, a tutt’oggi la normativa è tale per cui il comportamento del medico che, accogliendo la libera decisione del paziente di rifiutare o di sospendere le cure mediche che lo tengono in vita, provochi o agevoli la morte dello stesso, lasciando che la malattia faccia il suo corso anche fino alle estreme conseguenze, può integrare le fattispecie di reato previste dagli articoli 579 (Omicidio del consenziente) 580 (Istigazione o aiuto al suicidio) e 593 (Omissione di soccorso) del codice penale.
Certo, il consenso informato da parte del paziente ha radicalmente modificato il modo di interpretare il rapporto medico-malato, tanto da far divenire quest’ultimo il vero protagonista del processo terapeutico.
La giurisprudenza più recente della Corte Costituzionale ha ribadito l’estensione dei diritti fondamentali della dignità umana, della libertà personale e della salute, statuendo che qualsiasi atto invasivo della sfera fisica, terapeutico o meno, deve essere sempre consentito dal paziente, attraverso un libero consenso, essendo quest’ultimo principio inviolabile della libertà personale.
Infatti, l’intervento medico è legittimato esclusivamente dal consenso valido e consapevole espresso dal paziente, in forza degli articoli 13 e 32 della Costituzione, che tutelano non solo il diritto alla salute, ma anche il diritto ad autodeterminarsi, lasciando a ciascuno, nella propria individualità, il potere di scegliere se effettuare o meno un determinato trattamento sanitario, così come, diritto assoluto ed indisponibile del paziente è anche quello di modificare, in una fase successiva, con autonomia e libertà, la scelta precedentemente adottata.
Il principio in oggetto trova un preciso riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, nella Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata ai sensi della legge 28 marzo 2001, n. 145, e nel codice di deontologia medica.
Lo stesso codice di deontologia medica prescrive al medico di desistere dalla terapia quando il paziente consapevolmente la rifiuti (articolo 32) e, nel caso in cui il paziente non sia in grado di esprimersi, prescrive al medico di proseguire la terapia sino a quando la ritenga «ragionevolmente utile» (articolo 37).
Pertanto il principio dell’autodeterminazione individuale e consapevole di un trattamento medico può considerarsi ormai positivamente acquisito ed è funzionalmente collegato al dovere del medico di informare il paziente sulla natura, sulla portata e sugli effetti del suo intervento, che rappresenta la condizione indispensabile per la validità del consenso e del presupposto dialettico del rapporto medico-paziente.
Orbene, fulcro del problema a cui abbiamo il dovere morale e civile di dare una soluzione legislativa, è rappresentato proprio dalla circostanza che il nostro ordinamento giuridico non stabilisce alcuna disciplina sull’orientamento del rapporto medico-paziente e soprattutto sulla condotta del medico ai fini dell’attuazione pratica del principio di libera scelta del malato in relazione alla fase finale della propria esistenza.
A tal fine il disegno di legge prevede, all’articolo 1, che, in deroga agli articoli 579, 580 e 593 del codice penale, non è punibile il medico che provoca o agevola la morte di una persona che lo ha richiesto, a condizione che:
a) la persona si trovi in uno stato di malattia terminale, patologico o accidentale gravemente invalidante e irreversibile, causa di sofferenze fisiche o psichiche insopportabili e senza prospettive di miglioramento;
b) la persona, in piena autonomia e libertà, abbia chiesto espressamente, in modo ponderato e reiterato, di morire;
c) la persona, al momento della richiesta, sia pienamente capace di intendere e di volere.
Le suddette condizioni devono essere attestate da una commissione composta da tre medici, di cui uno specialista della patologia, uno indicato dal paziente e uno designato dall’ordine dei medici tra coloro che non hanno sollevato obiezione di coscienza.
La non punibilità si estende alle altre persone che hanno fornito i mezzi per il suicidio assistito e a chiunque abbia collaborato all’intervento sotto la direzione del medico.
Nel seguito del disegno di legge sono previsti:
- all’articolo 2, il riconoscimento del testamento biologico, e cioè delle direttive per la conclusione della propria esistenza, fornite anticipatamente per iscritto da una persona per l’ipotesi in cui, nel futuro, la stessa venga a trovarsi «in uno stato di malattia che comporta la perdita delle facoltà intellettive e della integrità psichica» (e quindi, nell’impossibilità di formulare al momento la proposta prevista dall’articolo 1);
- all’articolo 3, la necessità della maggiore età per la richiesta di cui all’articolo 1, la possibilità che la stessa sia formulata in forma orale o scritta e l’obbligo della sottoscrizione di due testimoni per il testamento biologico formulato anticipatamente;
- all’articolo 4, il diritto all’obiezione di coscienza per il medico a cui viene richiesto di praticare gli atti di cui all’articolo 1;
- all’articolo 5, l’assimilazione, ai fini civilistici, della morte frutto di una libera scelta alla morte per eventi naturali.
DISEGNO DI LEGGE
Articolo 1
(Non punibilità)
1. In deroga agli articoli 579, 580 e 593 del codice penale, non è punibile il medico che provoca o agevola la morte di una persona che lo ha richiesto, a condizione che:
a) la persona si trovi in uno stato di malattia terminale, patologico o accidentale gravemente invalidante e irreversibile, causa di sofferenze fisiche o psichiche insopportabili e senza prospettive di miglioramento;
b) la persona, in piena autonomia e libertà, abbia chiesto espressamente, in modo ponderato e reiterato, di morire;
c) la persona, al momento della richiesta, sia pienamente capace di intendere e di volere.
2. Le condizioni di cui al comma 1 devono essere attestate da una commissione composta da tre medici, di cui uno specialista della patologia, uno indicato dal paziente e uno designato dall’ordine dei medici tra coloro che non hanno sollevato obiezione di coscienza ai sensi dell’articolo 4.
3. La non punibilità di cui al comma 1 si estende alle altre persone che hanno fornito i mezzi per il suicidio assistito e a chiunque abbia collaborato all’intervento sotto la direzione del medico.
Articolo 2
(Testamento biologico)
1. Non è punibile il medico che provoca o agevola la morte di una persona che si trovi in uno stato di malattia che comporta la perdita delle facoltà intellettive e della integrità psichica, se la richiesta è stata formulata per iscritto quando la persona era pienamente capace di intendere e di volere. La richiesta formulata ai sensi del primo periodo è denominata testamento biologico.
Articolo 3
(Requisiti e forma della richiesta)
1. L’età minima per presentare la richiesta di cui all’articolo 1 è stabilita nella maggiore età.
2. La richiesta può essere orale o scritta.
3. Nel caso in cui la richiesta sia stata formulata anticipatamente ai sensi dell’articolo 2, in relazione a possibili eventi futuri tali da comportare la perdita irreversibile delle facoltà psichiche, essa è inserita in un documento sottoscritto davanti a due testimoni.
Articolo 4
(Obiezione di coscienza)
1. Il medico che non intenda partecipare alle procedure previste dalla presente legge manifesta all’ordine dei medici la propria obiezione di coscienza entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, ovvero dalla data di avvio del servizio presso un ente in cui sono praticate le procedure previste dalla presente legge. Il medico rende, altresì, nota la propria obiezione di coscienza al paziente che lo interpella ai fini previsti dalla presente legge.
Articolo 5
(Effetti giuridici)
1. Quando una persona muore a seguito di un atto contemplato all’articolo 1, ai fini civilistici, tale evento è assimilato alla morte per cause naturali e non può essere in nessun caso considerato rottura di rapporti contrattuali o produttivo di conseguenze contrattuali sfavorevoli per la persona interessata o per i suoi familiari.