Senato della Repubblica Disegno di legge n. 2000 del 4/2/2008

DISEGNO DI LEGGE

d’iniziativa dei senatori BOCCIA Maria Luisa, RUSSO SPENA, ALFONZI, BRISCA MENAPACE, CAPELLI, DI LELLO FINUOLI, GAGGIO GIULIANI, GAGLIARDI, NARDINI, PALERMO, VALPIANA e VANO

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 4 FEBBRAIO 2008

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Modifiche alla legge 19 febbraio 2004, n. 40, in materia di procreazione medicalmente assistita e surrogazione di maternità

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Onorevoli Senatori. – La legge 19 febbraio 2004, n. 40, è stata definita da più parti come una «legge cattiva», oltre che una cattiva legge, proprio in quanto volta a qualificare la procreazione da parte di chi vi sia impedito per ragioni soggettive, come un privilegio da concedere a pochi, e non un diritto fondamentale, da riconoscere universalmente alla persona, per il solo fatto di esser tale. La legge n. 40 del 2004 concede infatti il «privilegio» del ricorso alla fecondazione assistita alle sole coppie di soggetti maggiorenni, di sesso diverso, coniugati o conviventi, entrambi viventi, soltanto in presenza di casi di sterilità o infertilità da causa accertata, oppure, se inspiegabile, debitamente documentata da atto medico, previo accertamento dell’impossibilità di «rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione». I soggetti esclusi da questo «privilegio» sono numerosi: le donne sole, le coppie omosessuali, quelle affette da problemi di sterilità od infertilità da causa non documentata, quelle fertili cui la fecondazione assistita sia consigliata per ragioni di tutela della salute della madre o del nascituro. A costoro è negato non solo il diritto di procreare, costituzionalmente garantito dagli articoli 29, 30, 31 della Costituzione, ma anche quello di avvalersi di uno strumento che la legge stessa qualifica come «terapeutico».

Non solo. In virtù del divieto della diagnosi preimpianto (stabilito peraltro dal regolamento di attuazione della legge), dell’irrevocabilità del consenso prestato al ricorso alla procreazione assistita, della previsione del numero massimo di embrioni da produrre, nonché dell’illiceità della loro crioconservazione, la legge n. 40 del 2004 ha introdotto misure tali da esporre a gravissimi rischi l’incolumità e la salute della donna (violandone altresì la libertà di autodeterminazione in ordine alle scelte procreative), senza del resto assicurare, paradossalmente, una maggiore tutela all’embrione, come invece dichiarato dallo stesso articolo 1. Infatti, il divieto di diagnosi preimpianto favorisce inevitabilmente il ricorso all’aborto: la conseguenza paradossale è che la tutela «rafforzata» accordata dalla legge all’embrione può risolversi in un aborto. Inoltre, i divieti suelencati, nella misura in cui impongono alla donna, che si affidi alla tecnica per rimuovere cause soggettive impeditive della procreazione, trattamenti sanitari gravemente pregiudizievoli per la propria salute e incolumità, sottende un bilanciamento non conforme alle norme costituzionali, tra tutela di chi, come la donna, è persona e soggetto di diritto e chi, come l’embrione, persona deve ancora diventare. Una consolidata giurisprudenza costituzionale ha infatti chiarito come non si possa ipotizzare un «conflitto» tra diritti della donna e tutela dell’embrione, non esistendo equivalenza alcuna «fra il diritto non solo alla vita, ma anche alla salute della madre che è già persona, e quello dell’embrione, che persona deve ancora diventare» (Corte costituzionale, sentenza n. 27 del 1975). La legge quindi sottende ancora una volta l’idea del corpo della donna come luogo pubblico su cui esercitare, attraverso i divieti, il controllo e il potere maschili, qualificando il desiderio di maternità come egoismo biologistico.
La stessa predeterminazione del numero di embrioni da produrre e trasferire in utero, nella misura in cui costringe le donne a stimolazioni ovariche eccessive, ne pregiudica infatti sensibilmente il diritto alla salute, tutelato dall’articolo 32 della Costituzione. Inoltre, la legge n. 40 del 2004 ha introdotto limitazioni ingiustificate alla libertà della ricerca scientifica, tali da ostacolare (se non impedire del tutto) il progresso sul terreno della sperimentazione volta alla cura di patologie umane, in violazione dell’articolo 33 ma anche dell’articolo 32 della Costituzione, in contrasto non solo con l’orientamento prevalente negli altri ordinamenti, ma anche con le norme della Carta di Nizza. L’intrinseca contraddittorietà della legge, e la sua dubbia compatibilità con i principi costituzionali, ha infatti indotto diversi organi giurisdizionali a sollevare questioni di legittimità costituzionale, con particolare riferimento alle norme (articolo 14, commi 2 e 3) della legge inerenti il divieto di diagnosi preimpianto e la predeterminazione del numero degli embrioni da ottenere e trasferire in utero. L’unica pronuncia della Corte costituzionale in materia (ordinanza n.  369 del 2006, che ha dichiarato la manifesta inammissibilità dell’eccezione di costituzionalità) non ha infatti espresso il giudizio di merito sulle censure di legittimità sollevate dal giudice a quo, in ragione della intrinseca contraddittorietà dell’ordinanza di rimessione. In ragione di questo self-restraint della Corte, quindi, non è stato possibile sindacare nel merito l’illegittimità di norme – come quelle di cui all’articolo 14 della legge – che nel vietare la diagnosi preimpianto e nel predeterminare il numero massimo di embrioni da produrre e trasferire in utero, viola diritti costituzionalmente garantiti quali il diritto alla salute, al consenso rispetto al trattamento medico, alla stessa dignità della persona. D’altro canto, l’esigenza di garantire i diritti alla salute e al consenso informato rispetto al trattamento medico, ha indotto numerosi organi giurisdizionali ad adottare un’interpretazione costituzionalmente orientata della legge n. 40. Si muovono in tal senso la sentenza del Tribunale di Cagliari del 22 settembre 2007, che ha riconosciuto a una coppia di talassemici il diritto alla diagnosi preimpianto dell’embrione destinato al trasferimento in utero, in ragione dell’esigenza di interpretazione della legge n. 40 alla luce dei diritti alla salute e al consenso informato. Analogamente, il Tribunale di Firenze, con ordinanza del 17 dicembre 2007, ha disapplicato il divieto di diagnosi preimpianto non meramente osservazionale disposto con decreto del Ministro della salute 21 luglio 2004, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.  191 del 16 agosto 2004, ritenendolo giustamente contra legem, oltre che contrario a Costituzione. Il decreto subordina infatti la liceità delle indagini sullo stato di salute degli embrioni prodotti in vitro alloro carattere meramente osservazionale, in contrasto con l’articolo 13, comma 2, della legge n. 40 che non pone limiti alle metodologie diagnostiche, purché finalizzate alla tutela della salute dell’embrione, e in violazione del diritto al consenso informato di coloro che ricorrano alla procreazione assistita, sancito dagli articoli 6 e dall’articolo 14, comma 5. L’illegittimità di tale decreto – che ha indotto il Tribunale di Firenze a disapplicarlo ex articolo 5, legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E – è peraltro tanto più evidente in quanto l’estensione dei casi di diagnosi vietate ha l’effetto di ampliare surrettiziamente le fattispecie penalmente sanzionate dall’articolo 13 della legge n. 40 del 2004, in violazione dei princìpi di stretta legalità e riserva di legge in materia penale. La dubbia legittimità delle norme risultanti dal combinato disposto della legge n. 40 del 2004 e del citato decreto è del resto ulteriormente confermata dall’ordinanza del 23 gennaio 2008, con cui il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha sollevato eccezione di legittimità costituzionale dei commi 2 e 3 dell’articolo 14 della legge n. 40 (relativi al divieto di diagnosi preimpianto e alla predeterminazione del numero degli embrioni da ottenere e trasferire in utero), per contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione. Tale ordinanza, unitamente alle pronunce costituzionalmente orientate della legge n. 40 del 2004, fornite da molti giudici, dimostrano quindi ancora una volta l’illegittimità e l’intrinseca contraddittorietà di queste norme, la cui applicazione ha peraltro evidenziato gli effetti dannosi da esse prodotte, come si evince dall’aumento del «turismo procreativo» verificatosi in seguito all’entrata in vigore della legge. Ci si riferisce alla tendenza delle coppie italiane a rivolgersi a centri sanitari siti all’estero (in Paesi ove vigano norme meno restrittive e più garantiste di quelle sancite dalla legge n. 40 del 2004), non solo per avvalersi della donazione di gameti o della diagnosi genetica preimpianto, ma anche per ottenere l’applicazione delle tecniche procreative tali da garantire la più alta percentuale di successo possibile. Dai dati elaborati dall’Osservatorio dell’Associazione Centri studio e conservazione ovociti e sperma umani (CECOS), può evincersi come «i viaggi della speranza alla ricerca del figlio sono passati da 1020 del 2003 a 4.200 del 2006» Tale fenomeno dimostra quindi l’esigenza dei cittadini italiani di sfuggire a una disciplina, quale quella dettata dalla legge n. 40 del 2004, i cui effetti dannosi, in particolare (ma non solo) per la salute della donna, sono dimostrati dagli stessi dati contenuti nella relazione del Ministro della salute in ordine all’applicazione della legge n. 40 del 2004, presentata al Parlamento il 28 giugno 2007. Da tale Relazione può infatti evincersi come tali norme abbiano determinato una significativa riduzione (di 3.6 punti percentuali) del tasso di gravidanze, il cui esito negativo è peraltro decisamente aumentato (nella misura del 3,1 per cento), in ragione dell’obbligo di impianto di tutti gli embrioni prodotti, previsto dalla legge n. 40. Nella citata relazione si osserva infatti come: «analizzando i risultati riferiti solo alle tecniche a fresco FIVET e ICSI negli anni 2003 e 2005, si possono dedurre le seguenti considerazioni:

– confrontando le percentuali di gravidanze ottenute nel 2005 notiamo una significativa riduzione rispetto all’anno 2003. Le percentuali di gravidanze rapportate ai prelievi effettuati passano dal 24,8 per cento nel 2003 al 21,2 per cento nel 2005, con una riduzione di 3.6 punti percentuali, con una perdita ipotetica nell’applicazione delle tecniche a fresco che si può presumere ammonti a 1.041 gravidanze. Un ulteriore dato è quello dell’aumento degli esiti negativi delle gravidanze: si passa infatti dal 23,4 per cento di gravidanze ottenute con tecniche a fresco che si interrompono e non giungono al parto nell’anno 2003 (per aborti spontanei, morti intrauterine, gravidanze ectopiche), al 26,4 per cento nell’anno 2005. L’aumento degli esiti negativi delle gravidanze è direttamente correlato all’obbligo di impianto di tutti gli embrioni previsto dalla legge n. 40 del 2004;

– dei 209.236 ovociti prelevati nel 2005, il 36,8 per cento sono stati inseminati, il 12,2 per cento sono stati crioconservati e il 51,1 per cento sono stati scartati. Rispetto a questi dati, si evidenzia che la tecnica della crioconservazione degli ovociti è ancora sperimentale per molti centri e in molti casi non viene utilizzata perché troppo costosa rispetto alle probabilità di successo. Rispetto all’altissima percentuale di ovociti scartati, si sottolinea il nesso causale con quanto stabilito dall’articolo 14 della legge n. 40 del 2004, poiché, indicando in tre il numero massimo di embrioni da produrre e da trasferire in un unico e contemporaneo impianto, si impone un limite indiretto al numero massimo di ovociti da fecondare;
– circa l’80 per cento dei trasferimenti viene effettuato trasferendo più di un embrione, non potendo decidere il numero degli embrioni da trasferire in base alle caratteristiche cliniche e all’età della singola paziente. Nel 2003, come riferito dall’Istituto superiore di sanità, la percentuale di parti plurimi (parti gemellari, trigemini e multipli) era pari al 22,7 per cento, contro il 24,3 per cento ottenuto nel 2005.

Inoltre, rispetto alla percentuale dei parti trigemini, possiamo osservare che, mentre nei Paesi europei tale percentuale mostra una costante riduzione nel tempo, questo non avviene nel nostro paese. Inoltre, il dato italiano del 2005 pari al 2,7 per cento per le tecniche FIVET e ICSI risulta ben superiore al dato raggiunto in Europa già nel 2003 pari all’1,1 per cento».

La Relazione dimostra quindi anche il drastico incremento di parti gemellari, trigemini e multipli (gravemente pericolosi non solo per la donna, ma anche per i nascituri), verificatosi in ragione della predeterminazione del numero degli embrioni da produrre e trasferire in utero con impianto contemporaneo, che impedisce l’individualizzazione del trattamento sulla base delle caratteristiche soggettive (età, condizioni di salute, eccetera) di ciascuna donna. Non a caso, diverse associazioni, come anche la dottrina (sia in ambito giuridico che medico), hanno proposto una revisione delle linee guida o della legge stessa, volta innanzitutto a consentire la fecondazione di un numero di ovociti adeguato in relazione all’età e alla condizione sanitaria della donna, da valutarsi quindi caso per caso in ragione delle caratteristiche della paziente; a permettere la crioconservazione temporanea degli embrioni in soprannumero, in attesa di un successivo impianto al fine di evitare tanto gravidanze plurigemellari, quanto la necessaria iterazione di stimolazioni ovariche (assai pericolose per la donna); ammettendosi altresì la possibilità di non trasferire tutti gli embrioni prodotti qualora il medico ravvisi la sussistenza di un alto rischio di gravidanze plurime.
Al fine quindi di ridurre gli effetti dannosi prodotti dalla legge n. 40 del 2004, eliminandone altresì gli aspetti più discriminatorii e le norme in contrasto con i princìpi costituzionali, il presente disegno di legge, senza voler con ciò pregiudicare un’ulteriore iniziativa legislativa ex novo volta alla disciplina della procreazione assistita – propone una revisione organica della normativa, secondo i criteri di seguito enunciati.
Innanzitutto, con gli articoli da 1 a 3, recanti modifiche agli articoli 1, 4 e 5 della legge n. 40, si mira ad estendere la sfera dei soggetti legittimati all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), ricomprendendovi anche le coppie di cui almeno uno dei componenti sia affetto da patologie geneticamente trasmissibili, ovvero sia portatore del virus Human Immunodeficiency Virus (HIV). La negazione del diritto di accesso alla PMA rappresenta infatti in primo luogo una inammissibile discriminazione nei confronti di tali persone, cui in nome della difesa della naturalità della procreazione – elevata a bene giuridico meritevole di tutela, finanche penale, nonostante tale interesse non abbia alcuna copertura costituzionale – si preclude l’esercizio del diritto alla genitorialità, sancito dagli articoli 29, 30, 31 della Costituzione; 16 e 23 della Dichiarazione universale dei diritti umani e, rispettivamente, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché dall’articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e dall’articolo II-33 della Costituzione europea. L’esigenza di modificare in tal senso la legge si fonda infatti sulla necessità di tutelare non solo il diritto alla genitorialità quale forma di estrinsecazione fondamentale della personalità individuale, ex articolo 2 della Costituzione, ma anche il diritto alla salute, inteso come complessivo benessere ed integrità psico-fisica ex articolo 32 della Costituzione. Invece di rimuovere, con l’ausilio della tecnica, le discriminazioni che la natura determina fatalmente tra le persone, negando ad alcune il potere generativo, la legge n. 40 del 2004 riproduce ed accentua queste disuguaglianze, in nome non della vita ma della conservazione di ciò che a ciascuno è dato per natura, caso o destino, ma non certo per colpa. In secondo luogo, l’esclusione dall’accesso alle procedure di PMA per le coppie non sterili né infertili, ma affette da patologie geneticamente trasmissibili o dal virus HIV, determina una palese violazione del diritto alla salute anche dell’eventuale loro figlio, la cui genesi sarà fatalmente segnata dall’elevata probabilità di contrarre le patologie geneticamente (o sessualmente, come nel caso dell’HIV) trasmissibili di cui i genitori sono portatori, e che il ricorso alla fecondazione assistita avrebbe potuto scongiurare. Ed inoltre, l’esclusione di tali soggetti dalla sfera dei legittimati al ricorso alla PMA è ancora più grave alla luce del divieto di diagnosi preimpianto non meramente osservazionale, di cui all’articolo 13 della legge, come specificato dalle linee-guida di cui al citato decreto del Ministro della salute del 21 luglio 2004, che preclude alle coppie portatrici di malattie genetiche fertili, ma anche a quelle infertili, la possibilità di avere un figlio sano, costringendole o alla rinuncia alla genitorialità, o al ricorso all’aborto terapeutico. Lo stesso accade per le coppie in cui uno o entrambi i partners sono affetti da infezione HIV, in ragione dell’impossibilità di procedere al lavaggio dello sperma. A queste categorie di coppie non vengono, quindi, assicurati i diritti previsti dagli articoli 3 e 32 della Costituzione che sanciscono l’uguaglianza di tutti i cittadini ed il diritto alla salute, e si impone loro una sorta di trattamento sanitario obbligatorio consistente nell’eventuale ricorso alla interruzione volontaria di gravidanza.
La previsione di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b), modificando il comma 3 dell’articolo 4 della legge n. 40, intende legittimare il ricorso alla fecondazione eterologa da parte delle coppie affette da patologie geneticamente trasmissibili o da HIV, relativamente ai casi in cui tale modalità di fecondazione possa consentire di evitare al figlio la trasmissione delle patologie da cui sono affetti i genitori. Conseguentemente, si è reso necessario disciplinare modalità e condizioni per la donazione dei gameti, qualificata come atto volontario a titolo gratuito, che può essere perfezionato da ogni persona di età non inferiore a diciotto anni e non superiore, per la donna, a trentacinque anni, e, per l’uomo, a quaranta anni. Si è quindi previsto, al comma 2 dell’articolo 4, che la donazione di gameti avviene previo consenso informato e validamente espresso per iscritto, da parte del donatore, in seguito all’accertamento, da parte dei responsabili delle strutture sanitarie, dell’idoneità del donatore al fine di escludere la possibilità di trasmissione di patologie infettive o di malattie genetiche, secondo protocolli definiti con decreto del Ministro della salute, che definirà anche le modalità di conservazione dei gameti da parte delle strutture sanitarie. Si è inoltre previsto il divieto di utilizzare gameti di uno stesso donatore per più di otto gravidanze positivamente portate a termine, specificandosi altresì che tra il nato e il donatore non si costituisce alcun rapporto giuridico. Al fine di garantire il diritto alla privacy del donatore, si è sancito il carattere riservato dei dati che lo riguardano, salvi i casi di cui all’articolo 11 del presente disegno di legge. Tale disposizione, che introduce nel corpus normativo della legge n. 40 un articolo 16-bis, volto alla tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti nell’applicazione delle tecniche di pma e surrogazione di maternità, prevede la possibilità di rivelare, su autorizzazione dell’autorità giudiziaria, i dati personali del donatore di gameti, ove necessario a evitare un grave pregiudizio fisico o psichico al nato. Si è infatti ritenuto opportuno prevedere una limitazione del diritto all’anonimato e alla privacy del donatore unicamente qualora la conoscenza dei dati genetici sia indispensabile alla tutela dell’incolumità fisica o psichica del nato, pregiudicate ad esempio da patologie la cui terapia implichi la ricostruzione dell’identità genetica della persona, ovvero da condizioni psichiche che rendano necessaria la conoscenza da parte del nato delle sue «origini». Il diritto all’anonimato del donatore di gameti appare infatti ’cedevole’, in questi casi, rispetto all’esigenza di tutela dell’incolumità fisica o psichica del nato. La previsione della liceità, sia pur in presenza delle condizioni suddette, della fecondazione eterologa, ha reso necessario modificare la disciplina – di cui all’articolo 9 della legge n. 40 – della contestazione dello stato di figlio legittimo o riconosciuto del nato, nei termini previsti dall’articolo 6.
Ancora, in merito all’estensione dei requisiti soggettivi per l’accesso alla PMA, è opportuno rilevare come l’esigenza di garantire il diritto alla genitorialità si manifesti anche in relazione a persone che non possano avere figli per motivi non riconducibili a ragioni di ordine clinico ma a condizioni personali, come lo stato di detenzione o scelte di maternità a prescindere dal rapporto sessuale. Nei confronti di tali persone infatti, il ricorso alla PMA rappresenta l’unica possibilità per avere dei figli, ed è pertanto necessario garantire anche in tali casi il diritto alla genitorialità, come previsto dall’articolo 3. Si rileva in proposito come si sia individuato in tre anni la durata minima della detenzione tale da legittimare il ricorso alla PMA, non solo in ragione di un bilanciamento tra gli interessi in gioco, ma anche in quanto tale soglia coincide con il limite di pena per cui non opera la sospensione dell’esecuzione della pena di cui all’articolo 656, comma 5, del codice di procedura penale.
Un’ulteriore garanzia del diritto alla genitorialità per le donne affette da patologie tali da precludere la procreazione è disposta dalla lettera c) del comma 1 dell’articolo 2, che legittima il ricorso alla maternità surrogata unicamente se a titolo gratuito e previa previsione obbligatoria del diritto di recesso esercitabile ad nutum, in ogni momento, da entrambe le parti contrattuali, rispetto all’impegno assunto. Se infatti è doveroso punire la maternità surrogata effettuata dietro corrispettivo economico, per prevenire forme di sfruttamento del corpo femminile, a tutela quindi della dignità, della libertà, della stessa intangibilità fisica della donna, non altrettanto coerente rispetto a questo fine è l’incriminazione della surrogazione di maternità effettuata a titolo gratuito, per puro spirito di liberalità, di cui sarebbe opportuno sancire la liceità. È la natura stessa del processo di gestazione a non tollerare la logica negoziale, in ragione non soltanto del divieto di mercificazione del corpo, ma anche delle inammissibili implicazioni che ne deriverebbero in merito all’esecuzione forzata ed alla pretesa della prestazione inadempiuta. Dai diritti all’autodeterminazione procreativa, alla maternità volontaria, alla libertà di autodeterminazione in ordine alle scelte riguardanti il proprio corpo, derivano l’inammissibilità (per nullità del contratto) di un’obbligazione della donna di portare avanti una gestazione, ed il correlativo riconoscimento, in capo alla madre portante e sino al momento del parto, di tenere per sé il bambino. La maternità surrogata potrebbe quindi ammettersi nella forma della donazione, con il conseguente riconoscimento, in capo alla madre portante e sino al momento della nascita, del diritto di recesso ad nutum. Il che ovviamente non esclude – come rilevato da autorevole dottrina – la problematicità, sul piano etico, dell’assunzione di un tale impegno esistenziale quale è la gestazione e la correlativa esigenza di garantire, a livello giuridico, la revocabilità di tale impegno, che non può mai essere l’oggetto di una pretesa sia pur dissimulata, ma soltanto di un atto di liberalità, volontario, consapevole e spontaneo; espressione dell’etica del dono e mai della logica dell’obbligazione negoziale (la Gran Bretagna, con il Surrogaçy Act del 1985 e l’Human Fertilisation and Embriology Act del 1990 ha previsto un regime di liceità ’controllata’per la locazione di utero). La previsione della liceità, sia pur alle condizioni suddette, del ricorso alla surrogazione di maternità, ha inoltre reso necessaria l’integrazione del titolo della legge n. 40, come disposto dall’articolo 12 del presente disegno di legge.
L’articolo 4, comma 1, lettera b), n. 2, mira a consentire la revocabilità (in ogni momento per la donna, sino alla fecondazione dell’ovulo per l’uomo) del consenso prestato all’accesso alla PMA, conformemente agli articoli 32 della Costituzione (nella parte in cui vieta trattamenti sanitari coercitivi), 2 (inviolabilità della dignità umana, altrimenti lesa dalla coercitività di trattamenti sanitari invasivi ed in particolare, per le donne, da una maternità imposta), 13 (inviolabilità della libertà personale, altrimenti lesa irrimediabilmente da un impianto forzoso) della Costituzione; 5 della Convenzione di Oviedo, ratificata ai sensi della legge 28 marzo 2001, n.  145 (che sancisce la revocabilità senza limite alcuno del consenso al trattamento sanitario). Come noto, il testo dell’attuale articolo 6, comma 3, della legge n.  40 del 2004, impedisce alla donna la revoca del consenso prestato, dopo l’avvenuta fecondazione dell’ovulo. Se tale previsione può legittimarsi nei confronti dell’uomo – cui si richiede un’assunzione di responsabilità in seguito alla fecondazione dell’ovulo – essa rivela tutta la sua potenzialità lesiva nei confronti dei diritti alla salute, alla dignità, alla libertà personale, della donna, soprattutto se letta in parallelo con il divieto di diagnosi reimpianto. Si tratta infatti di norme che condannano la donna nell’un caso al trauma psicofisico dell’aborto, qualora l’embrione sia gravemente malato o malformato, e nell’altro caso sanciscono ancora una volta la maternità come dovere e destino imposto, neutralizzando le conquiste faticosamente raggiunte con la legge 22 maggio 1978, n.  194. Con riferimento all’articolo 6, comma terzo, si rileva innanzitutto la contrarietà del divieto di revoca del consenso al trattamento, ivi previsto, con il principio di revocabilità ’in ogni momento’ del consenso prestato al trattamento sanitario, di cui all’articolo 5 della citata Convenzione di Oviedo. Ma soprattutto, il divieto di revoca del consenso della donna all’impianto degli embrioni prodotti, anche in presenza di accertate patologie genetiche del feto, configura una servitù personale incompatibile con i diritti della donna all’autodeterminazione procreativa ed al rispetto della propria dignità, riproducendo la tradizionale espropriazione patriarcale del corpo femminile, ridotto oggi a contenitore di una forma di vita che per nascere presuppone invece un desiderio ed un atto d’amore irriducibili al lessico del dovere, della potestà, dell’obbligazione. Del resto, se gli unici trattamenti sanitari obbligatori ammissibili sono quelli idonei a migliorare o quantomeno a preservare lo stato di salute del soggetto interessato (Corte Costituzionale, sentenza n. 307 del 1990 e 258 del 1994), l’impianto coattivo anche di embrioni affetti da patologie genetiche è non solo inidoneo a migliorare o preservare lo stato di salute della donna, ma è anche potenzialmente dannoso per essa e per il concepito. L’ineffettività di tale obbligo è del resto significativamente dimostrata dalla sua incoercibilità, ora peraltro confermata dall’articolo 13 delle linee guida di cui al citato decreto del Ministro della salute del 21 luglio 2004, nella misura in cui si prescrive che qualora la donna rifiuti il trasferimento in utero dell’embrione affetto da gravi ed irreversibili anomalie, si mantenga la coltura in vitro dello stesso «fino al suo estinguersi».
L’articolo 8, comma 1, lettera b), introduce una ipotesi di liceità della ricerca sugli embrioni per i quali non sia stato possibile realizzare il trasferimento in utero, qualora la ricerca rappresenti il solo mezzo possibile per sperimentare efficacemente terapie finalizzate alla cura di patologie umane. Le previsioni della finalizzazione della sperimentazione alla terapia di patologie umane, nonché della natura residuale (di extrema ratio) della ricerca sugli embrioni (che deve quindi rappresentare il solo mezzo possibile per sperimentare efficacemente terapie finalizzate alla cura di patologie umane), consentono un adeguato bilanciamento tra gli interessi in gioco, valorizzando la funzione della ricerca scientifica, soprattutto in quanto finalizzata alla sperimentazione di terapie idonee a curare patologie umane; terapie quindi che potrebbero salvare migliaia di vite umane. Del resto, in questa prospettiva si orienta la maggior parte delle legislazioni europee: dalla Gran Bretagna – ove l’Human Fertilisation and Embriology Act ammette dal 1990 la ricerca sulle cellule staminali embrionali e, con l’autorizzazione della Human Fertilisation and Embriology Authority, la donazione terapeutica e la produzione di embrioni con trasferimento nucleare a fini di ricerca. Così anche in Svezia, Spagna, Belgio e Francia ove, pur proibendosi la creazione di embrioni a fini di ricerca e la donazione terapeutica, si consente la sperimentazione su cellule staminali estratte da embrioni sovrannumerari «privi di un progetto parentale», in virtù del progresso delle terapie che tali ricerche possono favorire. Persino la rigorosa disciplina tedesca, che inevitabilmente risente ancora del ricordo traumatico dell’eugenetica nazista, prevede dal 2002, ai sensi dell’Embryonenschutzesetz, la possibilità di autorizzare, ricorrendone tutti i requisiti prescritti, l’importazione di cellule staminali embrionali (così anche la normativa svizzera).
L’articolo 8, comma 1, lettera c), propone l’introduzione di una clausola di liceità della donazione a fini terapeutici, esclusivamente qualora non siano disponibili terapie alternative, parimenti efficaci per la cura di gravi patologie umane, così tutelando i diritti alla salute e alla vita dei soggetti che della donazione terapeutica potrebbero avvalersi per sopravvivere. È questa del resto la prospettiva accolta dall’articolo II-3 della Costituzione europea (non a caso compreso nel capo relativo alla dignità umana), che vieta le pratiche eugenetiche, in particolare se a fini di selezione degli individui, ogni tipo di strumentalizzazione del corpo umano a fini lucrativi e la donazione riproduttiva di esseri umani, consentendo invece la donazione a fini terapeutici. Questa distinzione dimostra come i divieti di cui all’articolo II-33 intendano tutelare non l’assoluta intangibilità del corpo, ma la dignità umana quale rispetto del valore assoluto della persona, insuscettibile di strumentalizzazione alcuna per fini che la trascendano. Consentire la donazione a fini terapeutici, vietando invece la donazione riproduttiva e la selezione eugenetica, significa proteggere l’inviolabilità del patrimonio genetico individuale, quale componente essenziale dell’identità personale. La norma della Costituzione europea è il frutto di un ponderato bilanciamento tra la tutela del genoma umano (e correlativamente, della vita prenatale, quale fase originaria di sviluppo del patrimonio genetico) e interessi quali, tra gli altri, i diritti alla libertà della ricerca scientifica, all’autodeterminazione procreativa, alla salute dei soggetti malati la cui speranza di vita dipende dal progresso della medicina.
L’articolo 9, comma 1, introduce una ipotesi di liceità della crioconservazione degli embrioni, rispetto ai quali il trasferimento nell’utero non risulti possibile (per revoca del consenso, perché privi di un progetto parentale, e così via), così consentendone la crioconservazione e l’utilizzazione a fini di ricerca, qualora sussistano le condizioni di cui all’articolo 8. La modifica proposta – peraltro conforme alle discipline in materia, della maggior parte degli Stati europei – mira ad evitare la morte degli embrioni ampliandone i casi di liceità rispetto alla disciplina attuale, che prevede la liceità della crioconservazione dei soli embrioni non impiantati «per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione». La modifica è del resto coerente con la previsione di cui all’articolo 4, comma 1, lettera b), n. 2, che sancisce la revocabilità del consenso (con il correlativo divieto di impianto forzoso) in ogni momento da parte della donna. La lettera b) del comma 1 dell’articolo 9 elimina poi la previsione del numero massimo di embrioni da produrre. Si tratta di norma pressoché isolata nel panorama legislativo europeo, che viola in particolare il diritto alla salute della donna, implicando, date le basse probabilità di riuscita delle pratiche di fecondazione, il ricorso ad una pluralità di cicli di stimolazione ovarica, così moltiplicando i rischi per l’incolumità della donna, connessi ai cicli ormonali. Del resto, il divieto di crioconservazione degli embrioni, che non possono prodursi in numero superiore a tre, ed il correlativo obbligo del loro impianto simultaneo, non consentendo di tenere conto delle condizioni di età, salute, situazione organica delle singole pazienti, determina il rischio di gravidanze plurime nelle donne più giovani (con il conseguente rischio di morte perinatale di uno o più embrioni) e, di contro, il probabile insuccesso della procedura nelle più anziane. Inoltre, il legame tra tali divieti, quello di riduzione embrionaria ed il carattere unicamente osservazionale (così dispongono le linee guida approvate dal Ministero della salute, con il citato decreto 21 luglio 2004) della diagnosi preimpianto, ne prevede l’accesso esclusivamente «qualora non siano disponibili metodologie alternative» (articolo 13, comma 2, della legge n. 40 del 2004), esponendo così la donna (e l’embrione) al pericolo di danni biologici irreparabili e favorendo, paradossalmente, il ricorso all’aborto. La lettera d) del comma 1 dell’articolo 9 prevede invece l’eliminazione della natura non obbligatoria della comunicazione, da parte del medico ai genitori, dello stato di salute degli embrioni prodotti, subordinandola alla istanza dei medesimi genitori. La modifica mira ad evitare che una mera, incolpevole, dimenticanza o una comprensibile ignoranza dei genitori, circa la necessità di rivolgere istanza al medico per ottenere tali informazioni, possa tradursi in una grave lesione del loro diritto a conoscere lo stato di salute del loro figlio potenziale. Tale comunicazione costituisce un obbligo etico, giuridico e deontologico per il medico (anche alla luce di quanto previsto dalla Convenzione di Oviedo), che come tale deve essere sancito dalla legge, a tutela del diritto all’autodeterminazione dei genitori, nonché del diritto alla salute dell’embrione, verso il quale i genitori sono tenuti ad autorizzare eventualmente ogni terapia possibile.
In ragione della prevista possibilità per il personale sanitario di avvalersi dell’obiezione di coscienza in relazione all’applicazione delle tecniche di PMA, si è introdotto all’articolo 10, un obbligo, in capo alle strutture sanitarie, di garantire l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita tramite il ricorso alla sostituzione del personale sanitario che si sia avvalso della facoltà suddetta.
Si è infine prevista una riduzione dei limiti edittali delle pene (reclusione e multa) comminate per la violazione dei divieti e degli obblighi in materia di crioconservazione e soppressione di embrioni, sperimentazione, eugenetica, clonazione, produzione di ibridi e chimere; realizzazione, organizzazione, pubblicizzazione della commercializzazione di gameti o embrioni o della surrogazione di maternità (fuori dei casi consentiti). Le sanzioni previste dalla legge n. 40 del 2004 sono infatti sproporzionate non solo rispetto al bene giuridico tutelato, ma anche in ragione della dimostrata ineffettività delle pene restrittive della libertà personale in materia, dal momento che la reale funzione deterrente è in questo caso svolta dalle misure interdittive, in ragione del «tipo di autori» incriminati.

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.

1. L’articolo 1 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, è sostituito dal seguente:

«Art. 1. – (Finalità). – 1. Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito alle condizioni previste dalla presente legge, al fine di favorire la soluzione dei problemi derivanti dalla sterilità, dall’infertilità, dalla sindrome da immuno-deficienza acquisita, ovvero da malattie trasmissibili al concepito, nonché allo scopo di consentire la procreazione qualora essa non sia altrimenti possibile.

2. Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito in assenza di altri metodi terapeutici parimenti efficaci, nonché in presenza di condizioni ostative alla procreazione naturale».

Art. 2.

1. All’articolo 4 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) il comma 1 è sostituito dal seguente:
«1. Salvo quanto previsto dall’articolo 5, comma 1-bis, il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione, in casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico o in presenza di sterilità o infertilità da causa accertata e certificata da atto medico, nonché nei confronti di persone che, pur non avendo problemi di fertilità, siano portatrici di patologie trasmissibili al concepito, ovvero del virus HIV»;
b) al comma 3 sono aggiunte in fine, le seguenti parole: «salvo da parte delle coppie di cui almeno uno dei componenti sia affetto da patologie geneticamente trasmissibili ovvero sia portatore del virus HIV»;

c) dopo il comma 3, è aggiunto il seguente:

«3-bis. Il ricorso alla surrogazione di maternità è ammesso, in presenza di patologie che rendano impossibile la procreazione, solo sulla base di un accordo tra le parti a titolo gratuito, che preveda obbligatoriamente, per entrambe le parti, il diritto di recesso unilaterale in qualsiasi momento. La maternità del nato a seguito del ricorso a tale tecnica è attribuita alla madre surrogata».

Art. 3.

All’articolo 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, dopo il comma 1 è aggiunto il seguente:

«1-bis. Possono altresì accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, anche in deroga ai presupposti di cui all’articolo 4, comma 1, donne maggiorenni in età potenzialmente fertile, anche singolarmente, ovvero coppie di persone coniugate o conviventi, delle quali una sia detenuta in esecuzione di una condanna non inferiore a tre anni, previa autorizzazione del Tribunale di sorveglianza».

Art. 4.

1. All’articolo 6 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 2 dopo la parola: «coppia», sono inserite le seguenti: «ovvero alla donna»;

b) al comma 3 sono apportate le seguenti modificazioni:

1) le parole: «di entrambi i soggetti», sono sostituite dalle seguenti: «dei soggetti di cui all’articolo 5», e alla parola «congiuntamente» sono premesse le seguenti: «e, nel caso di coppie,»;

2) l’ultimo periodo è sostituito dal seguente: «La volontà può essere revocata in qualsiasi momento da parte della donna e fino al momento della fecondazione dell’ovulo da parte dell’uomo».

2. Dopo l’articolo 6 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, è inserito il seguente:
«Art. 6-bis. (Donazione di gameti). – 1. La donazione di gameti avviene previo consenso informato e validamente espresso per iscritto, da parte del donatore. La donazione costituisce atto volontario a titolo gratuito, che può essere perfezionato da ogni persona di età non inferiore a diciotto anni e non superiore, per la donna, a trentacinque anni, e, per l’uomo, a quaranta anni.

2. I responsabili delle strutture sanitarie provvedono ad accertare l’idoneità del donatore al fine di escludere la possibilità di trasmissione di patologie infettive o di malattie genetiche secondo protocolli definiti con decreto del Ministro della salute, da adottarsi entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Il medesimo decreto disciplina altresì le modalità di conservazione dei gameti da parte delle strutture sanitarie di cui al periodo precedente.
3. I dati relativi al donatore sono riservati, salvo quanto disposto dall’articolo 16-bis.
4. Non è consentito l’utilizzo dei gameti di uno stesso donatore per più di otto gravidanze positivamente portate a termine.
5. Tra il nato e il donatore non si costituisce alcun rapporto giuridico.

Art. 5.

1. All’articolo 8 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, dopo la parola: «coppia», sono inserite le seguenti: «o della donna».

Art. 6.

1. All’articolo 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) il comma 1 è sostituito dai seguenti:
«1. Per contestare lo stato di figlio legittimo o riconosciuto ai sensi dell’articolo 8, non sono ammesse l’azione di disconoscimento di paternità, ai sensi dell’articolo 235 del codice civile, né l’impugnazione del riconoscimento, ai sensi dell’articolo 263 del medesimo codice, salvo quanto disposto dal comma 1-bis.

1-bis. L’azione di cui all’articolo 235 del codice civile è ammessa qualora ricorrano le circostanze previste dal numero 3) del primo comma del medesimo articolo. In tal caso è ammessa l’allegazione di elementi di prova idonei a dimostrare che il concepimento non è avvenuto a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita in relazione alle quali è stata rilasciata la dichiarazione di cui al comma 3 dell’articolo 6 della presente legge, ovvero che il ricorso alle tecniche sia avvenuto in assenza del consenso informato previsto dal medesimo comma dell’articolo 6. L’azione di cui all’articolo 263 del codice civile è consentita qualora ricorra la medesima circostanza di cui al periodo precedente del presente comma».

b) il comma 3 è abrogato.

Art. 7.

1. All’articolo 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) il comma 2 è sostituito dal seguente:
«2. Chiunque, a qualsiasi titolo, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita in assenza dei presupposti di cui all’articolo 5, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 150.000 a 350.000 euro»;
b) al comma 6, dopo le parole: «surrogazione di maternità», sono inserite le seguenti: «in violazione di quanto previsto dall’articolo 4, comma 3-bis,» e le parole da: «da tre mesi» fino a «euro» sono sostituite dalle seguenti: «da un mese a un anno e con la multa da 300.000 a 800.000 euro»;

c) al comma 7, le parole: da «da dieci» fino a «euro» sono sostituite dalle seguenti: «da sei a tredici anni e con la multa da 500.000 a 900.000 euro».

Art. 8.

1. All’articolo 13 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) il comma 1 è abrogato;

b) al comma 2, dopo le parole: «metodologie alternative», è aggiunto in fine il seguente periodo: «È consentita altresì la ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni per i quali non sia possibile realizzare il trasferimento in utero, qualora la ricerca rappresenti il solo mezzo possibile per sperimentare efficacemente terapie finalizzate alla cura di patologie umane, previo consenso scritto di coloro che abbiano donato gli embrioni medesimi»;
c) al comma 3, lettera c), sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «, salvo si tratti di clonazione a fini terapeutici ed esclusivamente qualora non siano disponibili terapie alternative, parimenti efficaci per la cura di gravi patologie umane»;
d) il comma 4 è sostituito dal seguente:

«4. La violazione dei divieti di cui al comma 3 è punita con la reclusione da sei a diciotto mesi e con la multa da 40.000 a 120.000 euro».

Art. 9.

1. All’articolo 14 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) il comma 1 è sostituito dal seguente:
«1. Salvo quanto disposto dal comma 3, sono vietate la crioconservazione e la soppressione di embrioni, fermo restando quanto previsto dalla legge 22 maggio 1978, n.  194».
b) il comma 2 è abrogato;

c) il comma 3 è sostituito dal seguente:

«3. Qualora il trasferimento nell’utero degli embrioni non risulti possibile è consentita la crioconservazione degli embrioni stessi»;
d) al comma 5, le parole: «, su loro richiesta,», sono soppresse;

e) al comma 6, le parole da: «fino a tre anni» fino a «euro» sono sostituite dalle seguenti: «fino a un anno e con la multa da 40.000 a 120.000 euro».

Art. 10.

1. All’articolo 16 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, è aggiunto, in fine, il seguente comma:

«3-bis. La struttura sanitaria è comunque tenuta a garantire l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita tramite il ricorso alla sostituzione del personale sanitario che si sia avvalso della facoltà di cui al comma 1».

Art. 11.

Dopo l’articolo 16 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, è inserito il seguente:

«Art. 16-bis (Tutela dei dati personali). – 1. I dati relativi alle persone che utilizzano le tecniche di procreazione medicalmente assistita e surrogazione di maternità previste dalla presente legge e quelli inerenti i nati a seguito dell’applicazione delle suddette tecniche sono riservati.

2. Le operazioni relative alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita sono registrate in apposite cartelle cliniche presso le strutture autorizzate ai sensi della presente legge, con rispetto dell’obbligo di riservatezza dei dati ivi annotati.
3. In deroga a quanto previsto dal codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, l’identità e i dati personali del donatore possono essere rivelati, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, ove necessario a evitare un grave pregiudizio fisico o psichico al nato.
4. Il giudice provvede con provvedimento motivato, su istanza del pubblico ministero, del figlio ultrasedicenne, degli esercenti la potestà genitoriale, del tutore o di un curatore speciale del figlio minore degli anni sedici».

Art. 12.

1. Al titolo della legge 19 febbraio 2004, n. 40, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «e di surrogazione di maternità».

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