PROPOSTA DI LEGGE
d’iniziativa del deputato
GRILLINI
Disciplina dell’unione civile
Presentata il 9 maggio 2006
Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge mira a rimuovere la più evidente e scandalosa forma di discriminazione giuridica attualmente vigente nel nostro Paese contro i cittadini omosessuali.
La mancata predisposizione di qualunque forma di riconoscimento delle unioni stabili fra persone dello stesso sesso nel nostro Paese rischia di assegnare all’Italia, in questa materia, un primato negativo che certamente nuoce alla reputazione internazionale del Paese in materia di tutela dei diritti umani.
Va subito precisato che la proposta di legge non propone di modificare la disciplina giuridica del matrimonio così come attualmente regolata nella legislazione italiana o la concezione tradizionalmente intesa dell’istituto matrimoniale. Essa non intende neppure influire in alcun modo sulla condizione giuridica dei figli o sulla disciplina delle adozioni dei minori. Tali caratteristiche sono del resto comuni alle analoghe leggi vigenti sull’argomento in Andorra, Repubblica Ceca, Croazia, Danimarca, Francia, Germania, Islanda, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera e, nei limiti delle competenze locali, che in molti casi si estendono ben oltre le materie pubblicistiche, in ben 12 delle 17 comunità autonome spagnole, nonché nel Cantone di Ginevra e in Vermont, o discusse attualmente pressoché in tutti i Parlamenti dei Paesi occidentali che ancora non si sono dotati di istituti corrispondenti. Invero, solo la legge belga, olandese e spagnola riconoscono a persone dello stesso sesso il diritto di contrarre matrimonio e quella inglese, olandese e spagnola, nonché quella del Quebec (Canada) anche di adottare congiuntamente minori, mentre Danimarca, Islanda e Norvegia prevedono la possibilità dell’esercizio congiunto della potestà genitoriale sui figli di uno dei conviventi.
In ogni caso, lo scopo dell’introduzione dell’istituto dell’unione civile è solo quello di porre i cittadini dello stesso sesso stabilmente conviventi nella condizione di essere esattamente altrettanto liberi di scegliere quale assetto conferire ai propri rapporti giuridici e patrimoniali quanto lo sono tutti gli altri cittadini. Si tratta cioè semplicemente di affermare in questo campo un elementare principio di uguaglianza giuridica e la «pari dignità sociale» dei cittadini, secondo il dettato dell’articolo 3, primo comma, della Costituzione.
Poiché dell’affermazione di tale basilare principio di uguaglianza giuridica e del conferimento di tale libertà di scelta qui si tratta, sarebbe incongruo ed elusivo pretendere di cogliere l’occasione della discussione sulle unioni civili per discettare sull’attualità o sulla desiderabilità nella società contemporanea del modello familiare vigente, come regolamentato dalla vigente legislazione matrimoniale. Se infatti i princìpi di libertà e di uguaglianza giuridica, fondanti l’ethos della democrazia liberale, vengono «presi sul serio», negare la loro applicazione al caso degli omosessuali diviene altrettanto ingiustificabile, e altrettanto ripugnante, quanto negarla ad altri gruppi di cittadini appartenenti a qualsiasi altro tipo di minoranza fondata su un’identità ascritta, quale è appunto quella determinata dall’orientamento sessuale dell’individuo: un’identità altrettanto ascritta, altrettanto poco oggetto di scelta personale (e quindi di valutabilità morale), quanto il colore degli occhi o dei capelli o le caratteristiche fisiche e razziali. Che l’orientamento sessuale - eterosessuale, omosessuale, bisessuale o transessuale che esso sia - tragga origine da caratteristiche organiche o genetiche, o sia invece il prodotto di inafferrabili esperienze psicologiche risalenti alla più lontana infanzia dell’individuo interessato, è questione del tutto irrilevante nei suoi riflessi giuridici e costituzionali: quel che conta a questi effetti è però il suo carattere ascritto, che rende le discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale non solo costituzionalmente illegittime, ma anche moralmente odiose. In effetti è in genere proprio la diffusa ignoranza di tale carattere intrinsecamente proprio dell’identità omosessuale - e più in generale delle identità individuali determinate dall’orientamento sessuale - che sembra fare da ostacolo a un inquadramento più realistico e meno arbitrario delle problematiche sociali, politiche, giuridiche, etiche (e perfino teologiche) poste dalla condizione omosessuale: una condizione che è cosa ben diversa dall’occasionale sperimentazione di episodici desideri omosessuali, che è esperienza quasi universalmente condivisa, almeno in qualche momento della vita di ciascun individuo. Alla luce però di una tale presa d’atto, che in sé dovrebbe risultare ormai perfino banale, grazie alla libertà di espressione di cui ormai da decenni godono gli omosessuali in Occidente, la presente proposta di legge si rivela tutt’altro che particolarmente radicale, e anzi mera e tranquilla applicazione di princìpi, a parole universalmente condivisi, di eguaglianza formale e sostanziale dei cittadini, di pari dignità sociale, di equità, di libertà della persona umana: princìpi fin qui, nella materia in questione, ignorati e calpestati. E si palesa invece in tutta la sua insostenibile brutalità il carattere discriminatorio del diniego, pur consueto, della parità di trattamento per gli omosessuali; che si configura nella nostra società, da un punto di vista concettuale, come l’atteggiamento culturale diffuso più prossimo, sia pure di solito inconsapevolmente, a quel razzismo «duro», propriamente biologico, che perfino l’estrema destra neonazista europea esita a rivendicare apertamente.
Le conseguenze di questa situazione di discriminazione giuridica sulla vita degli individui interessati sono spesso drammatiche e talora tragiche. È evidente l’iniquità di una situazione legislativa che, in Italia, negando ogni tutela alle convivenze fra persone dello stesso sesso, porta a negare perfino al convivente di decenni il diritto di assistere il proprio partner morente in ospedale (non è raro che le famiglie di origine addirittura impediscano al partner l’accesso al luogo di cura e lo escludano da ogni decisione riguardante il partner malato e incapace di agire); che non garantisce al (solo) convivente omosessuale il diritto di subentrare nell’affitto della casa comune in caso di morte o di sopravvenuta incapacità del partner, facendolo finire così, letteralmente, per strada, anche dopo decenni di convivenza; che esclude la reversibilità della pensione del partner omosessuale defunto e non prevede la possibilità di succedergli in qualità di erede legittimo, in mancanza di testamento; che stabilisce che la parte di patrimonio lasciata in eredità al partner omosessuale con testamento venga falcidiata dalla stessa tassazione prevista per i lasciti a persone del tutto estranee al defunto; che solo in poche regioni prevede che le coppie dello stesso sesso possano aver diritto alla casa popolare, se in possesso dei requisiti di legge, in modo da evitare, tra l’altro, la necessità della separazione forzata di partner anziani, conviventi da decenni, e del loro ricovero più o meno coatto in case di riposo; che, più in generale, nega ogni pur minima forma di tutela al partner economicamente più debole in caso di scioglimento di convivenze anche pluridecennali.
Ma, al di là e oltre a queste terribili iniquità che la situazione giuridica vigente comporta, vi è soprattutto un ineludibile dovere di riconoscere finalmente anche in Italia ai cittadini omosessuali uguaglianza formale e sostanziale e pari dignità sociale, adeguando la legislazione sui diritti umani nel nostro Paese all’evoluzione della coscienza giuridica europea contemporanea, a quell’«incivilimento dei costumi» di cui la popolazione omosessuale comincia, solo da qualche decennio e solo in Occidente, a godere i benefìci.
Dal punto di vista costituzionale, l’impossibilità per le coppie omosessuali di scegliere, per regolare i loro propri rapporti giuridici e patrimoniali, la disciplina stabilita dalle norme sul matrimonio potrebbe anche non apparire, allo stato attuale delle cose, come una discriminazione irragionevole ai sensi dell’articolo 3, primo comma, della Costituzione, a chi identificasse nella filiazione la sola ragione d’essere del matrimonio (ancorché la filiazione rappresenti pur sempre una mera eventualità, dal punto di vista sociologico sempre meno scontata, e ancorché sotto questo profilo la condizione delle coppie omosessuali non si discosti da quella delle coppie eterosessuali che si uniscano in matrimonio dopo avere inequivocabilmente superato l’età procreativa); oppure in conseguenza di un’interpretazione in senso giusnaturalistico (tesi peraltro alquanto screditata) che si intenda dare dell’articolo 29, primo comma, della stessa Costituzione.
Non sarebbe invece possibile sostenere in alcun modo che non costituisca un’irragionevole e immotivata discriminazione il negare alle coppie omosessuali la possibilità di scegliere una disciplina dei loro propri rapporti giuridici e patrimoniali che risulti identica a quella che regola nel matrimonio i rapporti fra i coniugi, se da tale disciplina fossero escluse - come lo sono nella presente proposta di legge - le norme sulla filiazione, e se l’istituto che prevedesse la possibilità di adottare una tale disciplina non pretendesse neppure di essere qualificato come matrimonio. Infatti, l’introduzione di un nuovo istituto basato su una tale disciplina, proprio perché riservato alle sole coppie dello stesso sesso, non influirebbe comunque sulla natura del matrimonio (la cui disciplina complessiva e il nomen juris non si propone vengano estesi al nuovo istituto), il quale continuerebbe ad essere regolato per intero dalla vigente normativa che non si propone venga modificata in nessuna sua parte. Se non, ovviamente, per esplicitare, come fa l’articolo 1, comma 3, della presente proposta di legge, la reciproca incompatibilità fra vincolo matrimoniale e vincolo costituito dall’unione civile: ma questa disposizione non modifica affatto, ma anzi semmai ribadisce, la stessa concezione tradizionale del matrimonio eterosessuale. Proprio per tali motivi, l’introduzione dell’unione civile non interferirebbe in alcun modo con il disposto dell’articolo 29, primo comma, della Costituzione, quale che sia l’interpretazione che si intenda darne: i «diritti della famiglia» fondata sul matrimonio non verrebbero infatti compromessi né modificati né limitati né intaccati in misura alcuna dall’esistenza delle unioni civili. Ma, a questo punto, non si vede neppure quale altro interesse pubblico potrebbe essere addotto per giustificare la disparità di trattamento, se non quello consistente nell’adesione a pratiche discriminatorie tramandate da una tradizione intollerante, violenta e preliberale.
Non è infatti più possibile, almeno da vent’anni, in Italia, affermare, come pure si continua stancamente a ripetere, che le garanzie previste dalla legge per le coppie unite da vincolo matrimoniale hanno la loro ragione d’essere nella funzione procreativa della famiglia tradizionale: nel 1975 la riforma del diritto di famiglia rese esplicito il principio secondo cui «l’impotenza non è causa di invalidità del matrimonio, se conosciuta dall’altro coniuge all’atto della celebrazione» (articolo 122 del codice civile; e si noti che, per il diritto civile italiano, la mera incapacità di procreare, se conosciuta, e quand’anche dipendente dall’assenza stessa degli organi riproduttivi, non lo era neppure nella legislazione previgente, articolo 123 del codice civile del 1942; e, in quanto tale, non lo era neanche nell’interpretazione data dalla giurisprudenza all’articolo 107 del codice civile del 1865!).
Di più, anche se la circostanza è poco nota, il requisito della differenza di sesso per la validità del matrimonio non è più richiesto dal diritto italiano se non al solo momento della celebrazione. La legge 14 aprile 1982, n. 164, che regola la rettificazione dell’attribuzione di sesso, prevede infatti nient’altro che lo «scioglimento» del matrimonio (e non già la sua sopravvenuta invalidità) per effetto del cambiamento di sesso di uno dei coniugi intervenuto dopo la celebrazione del matrimonio. Se in un primo momento alcuni interpreti ritennero trattarsi di una sorta di «scioglimento legale», attribuendo l’uso impreciso di tale vocabolo a una sciatteria anziché a un consapevole intento del legislatore (ciò che è storicamente falso), la successiva riforma della legge sul divorzio 6 marzo 1987, n. 74, ha escluso che di improprietà di linguaggio si fosse trattato: l’articolo 3, comma 1, numero 2), lettera g), della legge 1o dicembre 1970, n. 898 (recante la disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), inserisce il caso dell’intervenuta rettificazione di sesso fra quelli per i quali è previsto il divorzio. Sicché, nonostante residue resistenze dogmatiche di parte della dottrina, è da ritenere che, in mancanza di una domanda di scioglimento, il matrimonio del transessuale operato continui ad essere valido, nonostante l’ormai accertata identità di sesso fra i due coniugi. E non è dato comprendere con quali argomenti si possa sostenere la legittimità della persistenza di un valido vincolo matrimoniale fra persone dello stesso sesso purché il coniuge transessuale non fosse stato ancora operato al momento della celebrazione, e, al tempo stesso, l’inammissibilità, non solo del matrimonio, ma perfino di un istituto giuridico equivalente per quel che riguarda i soli rapporti giuridici e patrimoniali fra i partner, nel caso di una coppia omosessuale.
L’introduzione di una normativa che assicuri uguale trattamento giuridico alle coppie stabili dello stesso sesso che desiderino farlo proprio appare doverosa, sotto il profilo costituzionale, specialmente alla luce di quella parte dell’articolo 3, primo comma, della Costituzione, che espressamente vieta discriminazioni fondate su «condizioni personali» dei cittadini: neppure un espresso divieto costituzionale di discriminare le persone omosessuali potrebbe ritenersi più esaustivo e definitivo di una tale disposizione, dato che, come detto, l’omosessualità è oggi riconosciuta dalle scienze psicologiche e comportamentali, oltre che dall’Organizzazione mondiale della sanità, precisamente come una «condizione personale», propria dell’individuo e della sua intrinseca identità, condizione in nessun modo patologica, ma, appunto, «condizione», cioè identità ascritta, non oggetto di scelta da parte dell’interessato, quanto lo sono la sua identità fisica o quella razziale.
Sulla base di tale sia pur tardivo riconoscimento, non stupisce che la cultura giuridica europea abbia da più di un decennio decisamente adeguato i propri orientamenti. L’articolo 13 del Trattato istitutivo della Comunità europea, come modificato dal Trattato di Amsterdam, di cui alla legge n. 209 del 1998, che detta disposizioni sulla produzione di normative antidiscriminatorie comunitarie, pone esplicitamente sullo stesso piano le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e quelle fondate su «sesso, razza, origine etnica, religione, opinioni, handicap fisici o età». Un esplicito divieto di discriminazioni fondate, tra l’altro, sull’orientamento sessuale è stato poi ricompreso nell’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata dal Parlamento europeo il 14 novembre 2000. L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha poi approvato con la maggioranza del 77 per cento, una raccomandazione in cui si definisce la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale «una delle forme più odiose di discriminazione» (raccomandazione n. 1474 del 26 settembre 2000).
Altrettanto costituzionalmente doverosa l’introduzione di una tale normativa dovrebbe riconoscersi sulla base del secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, dato che non vi è dubbio che l’attuale disparità di trattamento, ultimo riflesso e portato giuridico di secoli di discriminazioni e persecuzioni, sommandosi all’ancora persistente ostilità di alcune fasce sociali particolarmente arretrate, ed anzi rafforzandola e in qualche modo fornendole giustificazioni, costituisca essa stessa un «ostacolo di ordine sociale» posto ai danni dei componenti di una minoranza: un ostacolo che, «limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini», può ben costituire impedimento al «pieno sviluppo della persona umana»; un ostacolo la cui rimozione sarebbe quindi suscettibile di tradursi, come in effetti è accaduto nell’ultimo decennio nei Paesi scandinavi, in un segnale e in uno stimolo da parte dello Stato in favore di una più compiuta accettazione sociale della presenza e della «pari dignità» degli omosessuali nella società.
Di più, sembra molto difficile negare che le coppie omosessuali stabili costituiscano, piaccia o non piaccia, «formazioni sociali ove si svolge la personalità» dei loro componenti, secondo la definizione dell’articolo 2 della Costituzione. Ed è opinione autorevole e ampiamente diffusa che lo stesso articolo 29, primo comma, vada coordinato con l’articolo 2 per ricavarne un concetto sociologicamente determinato e storicamente mutevole di che cosa costituisca «famiglia» ai sensi della vigente Costituzione: sicché all’espressione «società naturale» va riconosciuto un valore puramente recettizio. Questa tesi non nasce con lo scopo strumentale di fornire oggi una legittimazione costituzionale al riconoscimento delle unioni omosessuali, ma era già stata sostenuta in epoca non sospetta: per esempio, già nel capitolo del Commentario della Costituzione diretto da Giuseppe Branca dedicato all’articolo 29, redatto nel 1976 da Mario Bessone.
Con la presente proposta di legge non ci si propone comunque di modificare il matrimonio nel diritto italiano, ma solo di regolare il caso delle coppie dello stesso sesso stabilmente conviventi che lo desiderino, sulla base della piena parità di trattamento con quanto disposto, limitatamente ai rapporti fra i coniugi, nel matrimonio, e consentendo agli interessati la medesima libertà di scelta.
L’esigenza di assicurare alle coppie dello stesso sesso pari libertà e uguaglianza non potrebbe essere invece interamente soddisfatta da una legge, la cui approvazione appare peraltro necessaria e urgente, che si limitasse a disciplinare la condizione giuridica delle «famiglie di fatto», senza discriminare fra coppie di sesso diverso e coppie dello stesso sesso, o che magari prendesse in considerazione ogni altro genere di convivenze stabili, anche non implicanti alcuna relazione sessuale, come per esempio quelle fra fratelli e sorelle, fra affini di vario grado o fra vedovi o persone anziane non legate da rapporti di parentela.
Tale è il caso dei progetti di legge già presentati nelle scorse legislature alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica da parlamentari di vario orientamento politico per regolare le convivenze di fatto. Un’innovazione legislativa rivolta in tale direzione difficilmente potrebbe infatti fare discendere imperativamente, dal mero fatto della convivenza, una regolamentazione dei rapporti giuridici e patrimoniali così esaustiva e penetrante da equivalere in tutto e per tutto a quella costituita dalla volontaria assunzione di un vincolo matrimoniale: qualora fosse auspicabilmente accolta dal Parlamento, è verosimile che lo sarebbe solo nei limiti della previsione di una protezione giuridica per il convivente economicamente più debole o sopravvissuto, tale soprattutto da evitare che questi possa essere travolto da eventi imprevisti e catastrofici.
Va sottolineato che la presente proposta di legge è ben lungi dal proporsi quale alternativa o superamento dei progetti sul riconoscimento di determinati effetti giuridici alle convivenze di fatto o sull’introduzione di nuovi istituti giuridici di carattere pattizio destinati a regolarle per volontà delle parti, con effetti più leggeri di quelli previsti dalla legislazione matrimoniale: al contrario, solo l’introduzione delle unioni civili, o comunque di un istituto che garantisca alle persone dello stesso sesso la piena libertà di regolare i propri rapporti, qualora lo desiderino, nello stesso modo consentito agli eterosessuali con il matrimonio, consentirebbe davvero di legiferare in modo non discriminatorio anche sulle famiglie di fatto. L’auspicabile legge sulle famiglie di fatto, qualora fosse introdotta con l’intento di risolvere (anche) i problemi posti dalle convivenze omosessuali, non potrebbe infatti che risultare altrimenti o troppo invasiva ed esigente, imponendo alle coppie conviventi eterosessuali, che hanno pure scelto volontariamente di non sposarsi, il peso di vincoli non voluti, o insufficiente ad assicurare alle coppie dello stesso sesso, che non hanno potuto scegliere di attribuire ai propri rapporti giuridici un assetto diverso, una tutela che vada al di là dello stretto indispensabile. Solo se la possibilità di optare per una regolamentazione identica a quella prevista, limitatamente ai rapporti fra i coniugi, nel matrimonio fosse a disposizione anche delle coppie dello stesso sesso, la normativa sulle famiglie di fatto svolgerebbe la medesima funzione in entrambi i casi.
Per quel che riguarda la tutela delle convivenze, vanno quindi ribadite la serietà e l’importanza delle esigenze che si propongono di soddisfare i progetti di legge già presentati nelle scorse legislature: e va ribadita in particolare la validità della scelta di non mettere in discussione il principio di tipicità proprio dei negozi familiari e il carattere patrimoniale necessariamente connesso all’autonomia contrattuale privata nell’ordinamento italiano. Tali princìpi non consentono di utilizzare, per il raggiungimento degli scopi indicati, lo strumento del contratto, come può avvenire più o meno felicemente e in maggiore o minore misura in ordinamenti improntati a diverse impostazioni dottrinarie. L’utilizzo dello strumento contrattuale, d’altra parte, quand’anche non incorresse nei limiti attualmente vigenti nell’ordinamento italiano, sarebbe forse in grado di incidere su alcuni problemi di carattere pratico (inclusi in parte quelli risolvibili con l’introduzione di una normativa sulle famiglie di fatto), ma soddisfarebbe ancora meno l’esigenza di realizzare in questo campo una piena uguaglianza formale fra i cittadini. Alle coppie eterosessuali sarebbe infatti pur sempre riconosciuta la libertà di scelta fra l’eventuale disciplina stabilita dall’ipotetico istituto previsto per la regolamentazione delle unioni di fatto, quella conseguente alla celebrazione del matrimonio e quella fondata sull’autonomia contrattuale, mentre alle coppie omosessuali non verrebbe riconosciuta che la possibilità di scegliere fra la normativa sulle convivenze di fatto e la disciplina di fonte contrattuale: quest’ultima inopponibile a terzi e necessariamente incapace di incidere significativamente sugli aspetti non strettamente civilistici della materia. D’altra parte, appare del tutto sconsigliabile introdurre nell’ordinamento un principio di autonomia privata di tipo contrattuale in questa materia, tale da consentire la creazione di negozi di famiglia atipici, dato che è prevedibile che un tale principio non tarderebbe ad essere invocato per legittimare pratiche di discriminazione e introdurre limitazioni dei diritti dei componenti di alcuni nuclei familiari, specie appartenenti o facenti riferimento a culture non fondate sul principio della parità fra i coniugi e sul rispetto dei diritti dei minori, o che tali princìpi apertamente rigettino. Risolvere la questione ricorrendo al consueto limite dell’ordine pubblico o del buon costume significherebbe scaricare sui giudici la responsabilità di compiere delicatissime scelte di natura eminentemente politica.
L’istituto dell’unione civile, così come delineato nella proposta di legge, costituisce invece il solo possibile strumento giuridico fin d’ora realisticamente proponibile, atto a realizzare una piena parità formale dei cittadini omosessuali, consentendo ai nuclei familiari da costoro costituiti di scegliere liberamente, come è consentito a tutti gli altri, quale assetto conferire ai propri rapporti giuridici e patrimoniali. Al tempo stesso la proposta di legge sembra capace di resistere validamente a gran parte delle obiezioni demagogiche avanzate da gruppi estremisti, clericali, tradizionalisti, reazionari o neonazisti contro ogni forma di riconoscimento giuridico delle famiglie omosessuali, dato che non si propone di modificare in alcun modo lo status e la condizione giuridica dei figli, né di attribuire alle famiglie omosessuali in quanto tali il diritto di adottare minori o intaccare in alcun modo i caratteri propri della famiglia cosiddetta tradizionale, che continuerebbe a poter essere fondata esclusivamente sul matrimonio fra sposi di sesso diverso.
Viene così spogliata di ogni possibile giustificazione e fatta risaltare nella sua evidente iniquità la discriminazione cui la presente proposta di legge intende ovviare: non è ammissibile in una società liberale che due ultrasettantenni, impossibilitati esattamente come due persone dello stesso sesso ad avere figli per via naturale, per via di inseminazione artificiale (impossibile a quell’età e del resto vietata), o per via di adozione, possano liberamente decidere, sposandosi o risposandosi, quale assetto conferire ai loro propri rapporti e alla propria vita privata e sociale, e che la stessa libertà di scelte di vita sia invece negata a due persone dello stesso sesso.
L’introduzione dell’unione civile nell’ordinamento italiano verrebbe così a configurarsi come un’applicazione parziale delle indicazioni contenute nella risoluzione approvata fin dall’8 febbraio 1994 dal Parlamento europeo sulla «parità dei diritti per le persone omosessuali», e più volte ribadita successivamente nei suoi princìpi (si veda la risoluzione «Sulla parità di diritti per gli omosessuali nell’Unione europea», approvata dal Parlamento europeo il 17 settembre 1998; analoga la citata raccomandazione n. 1474, approvata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa il 26 settembre 2000). Applicazione parziale, dato che tale risoluzione, dopo aver auspicato che vengano rimossi «gli ostacoli al matrimonio di coppie omosessuali ovvero «che venga introdotto» un istituto giuridico equivalente, garantendo pienamente diritti e vantaggi del matrimonio», indica quale obiettivo da raggiungere anche quello di «porre fine a qualsiasi limitazione del diritto degli omosessuali (…) di adottare o avere in affidamento dei bambini». Con l’articolo 3 della presente proposta di legge si è invece ritenuto di optare per un criterio gradualistico e realistico (tale cioè da rendere realistica la possibilità che la proposta di legge venga presa in seria considerazione, e che essa non possa anzi essere ignorata o accantonata senza vergogna, almeno da parte di tutte le forze politiche di orientamento laico e democratico), e di seguire in questo l’esperienza dei Paesi che già hanno introdotto istituti analoghi a quello qui proposto, limitando l’introduzione del principio di parità di trattamento a quei rapporti che non incidano in modo immediato e diretto sulla sfera giuridica dei figli, e tanto più dei minori in stato di adottabilità, stanti i più complessi risvolti etico-politici ed emozionali che tale materia non può non implicare. Quale che sia l’opinione di ciascuno a proposito di tale questione, sembra in effetti impensabile che proprio l’Italia, e proprio di questi tempi, sia capace di porsi in questo campo all’avanguardia in campo mondiale, sopravanzando i risultati e le esperienze delle democrazie più radicate, più liberali e più avanzate del mondo, dove si è fatta o comincia a farsi strada l’idea di consentire l’esercizio congiunto della potestà genitoriale sui figli di uno dei conviventi di coppie omosessuali che abbiano contratto un’unione corrispondente a quella prevista dall’istituto di cui qui si propone l’introduzione in Italia. Questa scelta dovrebbe tra l’altro togliere ogni pretesto alla facile demagogia dei gruppi clericali o razzisti che hanno già ritenuto di impostare la loro campagna contro ogni forma di tutela delle famiglie omosessuali proprio sull’argomento delle adozioni, nonostante che nessuno degli ormai numerosi progetti di legge presentati negli scorsi anni alle Camere in questa materia su sollecitazione delle associazioni gay italiane abbia mai affrontato tale questione. Conseguentemente, seguendo anche in questo il modello delle leggi introdotte nei Paesi ad ordinamento affine (però senza tacere la non trascurabile differente legislazione esistente in Olanda, Regno Unito, Spagna e Danimarca, nonché in diversi altri Paesi), si è ritenuto di escludere dal campo di applicazione delle norme destinate a regolare il nuovo istituto tutte quelle relative alla filiazione, comprese le disposizioni sul matrimonio dettate esclusivamente in ragione della fisiologia riproduttiva della donna (come l’articolo 89 del codice civile, che ne vieta il matrimonio prima che siano trascorsi trecento giorni dallo scioglimento o dall’annullamento del matrimonio precedente, o le disposizioni sulla presunzione di concepimento nel matrimonio: precisazione, quest’ultima, non irrilevante nel caso di unione fra donne).
Tale materia potrà caso mai essere affrontata da altri eventuali futuri provvedimenti di riforma, o magari diversamente riformulata e impostata nel caso, che tuttavia non ci si deve nascondere al momento altamente improbabile, di un orientamento che dovesse manifestarsi in sede parlamentare, in favore dell’integrale applicazione della citata risoluzione europea del 1994.
Essendo la disciplina dei rapporti fra i coniugi improntata ormai nell’ordinamento italiano al principio della piena parità, senza distinzioni fra la posizione del marito e quella della moglie, si è ritenuto sufficiente operare, con l’articolo 1 della proposta di legge, un rinvio mobile alle norme che regolano tale materia, espressamente esteso anche alle eventuali modificazioni legislative che dovessero intervenire in futuro, proprio in omaggio all’obiettivo che si è indicato di regolare la disciplina delle unioni civili sulla base dell’uguaglianza con quanto disposto, limitatamente ai rapporti fra i coniugi, nel matrimonio. Trattandosi tuttavia di una proposta di legge ordinaria, è evidente che il rinvio mobile qui predisposto alle norme future opererà comunque nei limiti che saranno stabiliti dal futuro legislatore ordinario, il quale, nel caso non intendesse estendere alla disciplina delle unioni civili determinate modifiche da apportare alla disciplina dei rapporti fra i coniugi nel matrimonio, avrà solo l’onere di dichiararlo (salva ovviamente la ragionevolezza della disparità di trattamento ai sensi dell’articolo 3, primo comma, della Costituzione). L’espresso riferimento alle norme future potrebbe a rigore ritenersi superfluo, ma lo si è voluto specificare per fugare ogni dubbio e per rendere ancora più chiare la natura mobile del rinvio e la volontà di uniformare per intero la disciplina dell’unione civile alle norme che regolano i rapporti fra i coniugi nel matrimonio. Tra l’altro, l’ampio ricorso qui proposto alla tecnica legislativa del rinvio esclude la possibilità che gli interpreti possano utilizzare la regola «inclusio unius, exclusio alterius», come potrebbe accadere in presenza di una disciplina legislativa dei rapporti fra le parti dell’unione civile che risultasse meno minuziosa di quella prevista per i rapporti fra i coniugi nel matrimonio, ancorché ad essa analoga e completata da una disposizione di rinvio meno comprensiva.
Sola necessaria eccezione alla tecnica legislativa del rinvio è sembrato di dover individuare in materia di uso dei cognomi, dato che la legge vigente tratta sotto questo profilo la condizione della moglie in modo diverso da quella del marito. L’articolo 2 della presente proposta di legge risolve la questione conferendo ai contraenti piena libertà di scelta in materia. Va rilevato che questa soluzione è la stessa implicitamente accolta dalla legge danese sulla «partnership registrata», dato che la legge matrimoniale danese oggetto di rinvio affida la scelta del cognome familiare alla comune determinazione dei coniugi.
L’articolo 3 stabilisce che l’unione civile non influisce in alcun modo sulla condizione giuridica dei figli, restando estranea all’unione la disciplina delle adozioni dei minori.
Con l’articolo 4 si ribadisce il principio dell’equiparazione fra condizione dei coniugi e condizione delle parti dell’unione civile, anche in relazione alle disposizioni contenute nei contratti collettivi di lavoro.
L’articolo 5, seguendo in questo alla lettera il modello dell’originaria legge danese e di altre successive, stabilisce che le disposizioni dei trattati internazionali relative al matrimonio non si applichino alle unioni civili senza il consenso dell’altro Stato contraente. Con questa formulazione non si intende solo chiarire che, com’è ovvio, i trattati internazionali in materia di matrimonio non potranno essere interpretati, per di più in una materia così politicamente delicata, in un modo difforme dalla comune volontà delle parti contraenti, e comunque imprevisto al momento della loro stipulazione: ma anche che, per l’estensione delle loro disposizioni alle unioni civili (e quindi per il mutuo riconoscimento dei nuovi istituti fra gli Stati che li hanno introdotti o che si apprestano a farlo), non sarà necessario ricorrere alla stipulazione di nuovi trattati, ma sarà sufficiente il consenso manifestato dall’altro Stato contraente. E ciò, ancora una volta, in omaggio al principio dell’uguaglianza di trattamento con quanto disposto per i rapporti fra i coniugi nel matrimonio. Tra l’altro, anche l’opportunità di regolare l’unione civile in modo omogeneo a quanto già previsto dai Paesi ad ordinamento affine a quello italiano che già hanno regolato la materia costituisce un’ulteriore ragione in favore di una regolamentazione fondata sul rinvio alla normativa matrimoniale.
PROPOSTA DI LEGGE
(Nozione di unione civile)
1. Due persone fisiche dello stesso sesso, almeno una delle quali cittadino italiano o regolarmente residente nel territorio della Repubblica, possono contrarre fra loro un’unione civile.
2. All’unione civile, alla sua celebrazione, al suo scioglimento, ai rapporti fra i contraenti e alle loro vicende, anche in materia di successione, si applicano tutte le disposizioni civili, penali, amministrative, processuali e fiscali relative al matrimonio civile, incluse le eventuali modificazioni successive alla data di entrata in vigore della presente legge, in quanto applicabili e con le sole eccezioni espressamente disposte.
3. Ai sensi della presente legge non rileva la distinzione tra «marito» e «moglie» dovunque essa ricorra nelle disposizioni richiamate al comma 2. Le parole «marito» e «moglie», ovunque ricorrano, sono da intendersi sostituite con quella di «partner».
4. Non può contrarre un’unione civile chi è vincolato da un matrimonio precedente o da una precedente unione civile.
(Uso dei cognomi)
1. I contraenti mantengono ciascuno il proprio cognome, salvo che, all’atto della celebrazione dell’unione civile, stabiliscano che uno dei due, o entrambi, aggiungano al cognome dell’uno quello dell’altro. In tale caso si osservano, in quanto applicabili, gli articoli 143-bis e 156-bis del codice civile e l’articolo 5, comma 2, della legge 1o dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni.
(Condizione dei figli)
1. La celebrazione dell’unione civile non ha effetti sullo stato dei figli dei contraenti.
2. Le disposizioni relative alla presunzione di concepimento nel matrimonio e al divieto per la donna di contrarre matrimonio prima che siano passati trecento giorni dallo scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili del matrimonio precedente non si applicano all’unione civile.
3. Le disposizioni che regolano l’adozione di minori da parte dei coniugi non si applicano alle unioni civili.
(Contratti collettivi di lavoro)
1. Le disposizioni dei contratti collettivi di lavoro dirette a garantire l’assolvimento dell’obbligo di reciproca assistenza, relative al matrimonio e al coniuge del lavoratore, si applicano anche all’unione civile.
(Trattati internazionali)
1. Le disposizioni dei trattati internazionali relative al matrimonio non possono essere applicate all’unione civile senza il consenso dell’altro Stato contraente.