Massima.
«E’ infondata, nei sensi di cui in motivazione (ove si rileva che l’insegnamento della religione cattolica è facoltativo e per quanti decidano di non avvalersene l’alternativa è uno stato di non-obbligo), la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, n. 2, l. 25 marzo 1985, n. 121 e del punto 5, lett. b, n. 2, protocollo addizionale, in riferimento agli art. 2, 3 e 19 cost.»
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Dott. Francesco SAJA, presidente
Prof. Giovanni CONSO, giudice
Prof. Ettore GALLO, giudice
Prof. Aldo CORASANITI, giudice
Prof. Giuseppe BORZELLINO, giudice
Dott. Francesco GRECO, giudice
Prof. Renato DELL’ANDRO, giudice
Prof. Gabriele PESCATORE, giudice
Avv. Ugo SPAGNOLI, giudice
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, giudice
Prof. Antonio BALDASSARRE, giudice
Prof. Vincenzo CAIANIELLO, giudice
Avv. Mauro FERRI, giudice
Prof. Luigi MENGONI, giudice
Prof. Enzo CHELI, giudice
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, punto (recte: numero) 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’ll febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), e dell’art. (recte: punto) 5, lettera b), numero 2, del Protocollo addizionale, promosso con ordinanza emessa il 30 marzo 1987 dal Pretore di Firenze nel procedimento civile vertente tra Moroni Anna Maria e altri e l’Amministrazione della pubblica istruzione, iscritta al n. 575 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 1988.
Visto l’atto di costituzione di Moroni Anna Maria e altri, nonchè l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 marzo 1989 il Giudice relatore Francesco Paolo Casavola;
uditi gli avvocati Paolo Barile, Andrea Proto Pisani e Corrado Mauceri per Moroni Anna Maria e altri e l’Avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il Pretore di Firenze, con ordinanza del 30 marzo 1987 (pervenuta alla Corte costituzionale il 30 settembre 1988, R.O. n. 575/1988), solleva questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione, dell’art. 9, punto (recte: numero) 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede) e dell’art. (recte: punto) 5, lettera b), numero 2, del suddetto Protocollo addizionale, nel dubbio ch’essi causerebbero discriminazione a danno degli studenti non avvalentisi dell’insegnamento di religione cattolica .
2. Prima di passare al merito, occorre prendere in esame le tre eccezioni di inammissibilità opposte per il Presidente del Consiglio dei ministri dall’Avvocatura dello Stato: a) natura ancipite dell’ordinanza di rimessione; b) difetto di giurisdizione del Pretore in ordine a provvedimenti organizzatori del servizio scolastico; c) improponibilità nel giudizio costituzionale dell’apprezzamento di situazioni contingenti verificatesi in fase di prima e incompleta applicazione della normativa.
L’eccezione sub a) non è nella specie accoglibile, perchè il giudice a quo, prospettando anche l’effetto discriminante a danno degli studenti avvalentisi dell’insegnamento di religione cattolica, precisa, proprio per la descritta reciprocità di effetti discriminatori, il thema decidendum, se l’insegnamento di religione cattolica, compreso tra gli altri insegnamenti del piano didattico, con pari dignità culturale, come previsto nella normativa di fonte pattizia, sia o non causa di discriminazione.
Quanto al punto b), versandosi in materia di diritto soggettivo, qual è il diritto di avvalersi o di non avvalersi dell’insegnamento di religione cattolica, non è contestabile la giurisdizione del giudice ordinario, né può assumere rilevanza in questa sede il possibile contenuto del provvedimento di urgenza che il giudice a quo potrebbe adottare.
Per il punto c), il criterio ancor recentemente ribadito da questa Corte (ordinanza n. 914 del 1988) che «l’apprezzamento di situazioni contingenti […] venutesi a creare nella fase di prima applicazione della normativa, non può essere compiuto nel giudizio di costituzionalità, ove le asserite disparità siano, come nella specie, ricollegabili all’incompletezza delle ordinanze ministeriali o addirittura alle concrete scelte tecniche di chi e tenuto a darvi esecuzione»>, non è applicabile allo status quaestionis, essendo nel frattempo intervenuta pronuncia del Consiglio di Stato (sentenza n. 1006 del 1988) con l’effetto di consolidare l’assetto organizzatorio scolastico che si lamenta causa di discriminazione a danno di studenti non avvalentisi dell’insegnamento di religione cattolica, obbligati alla frequenza di insegnamenti o di attività alternative.
3. Questa Corte ha statuito, e costantemente osservato, che i principî supremi dell’ordinamento costituzionale hanno «una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale, sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni del Concordato, le quali godono della particolare copertura costituzionale fornita dall’art. 7, secondo comma, della Costituzione, non si sottraggono all’accertamento della loro conformità ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale (v. sentenze n. 30 del 1971, n. 12 del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977 e n. 18 del 1982), sia quando ha affermato che la legge di esecuzione del Trattato della C.E.E. può essere assoggettata al sindacato di questa Corte in riferimento ai principî fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana (v. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984)» (cfr. sentenza n. 1146 del 1988).
Pertanto la Corte non può esimersi dall’estendere la verifica di costituzionalità alla normativa denunziata, essendo indubbiata di contrasto con uno dei principî supremi dell’ordinamento costituzionale, dati i parametri invocati, artt. 2, 3 e 19. In particolare, nella materia vessata gli artt. 3 e 19 vengono in evidenza come valori di libertà religiosa nella duplice specificazione di divieto: a) che i cittadini siano discriminati per motivi di religione; b) che il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare alcuna religione.
4. I valori richiamati concorrono, con altri (artt. 7, 8 e 20 della Costituzione), a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica.
Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale. Il Protocollo addizionale alla legge n. 121 del 1985 di ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra la Repubblica italiana e la Santa Sede esordisce, in riferimento all’art. 1, prescrivendo che «Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano» con chiara allusione all’art. 1 del Trattato del 1929 che stabiliva: .
5. La scelta confessionale dello Statuto albertino, ribadita nel Trattato lateranense del 1929, viene cosi anche formalmente abbandonata nel Protocollo addizionale all’Accordo del 1985, riaffermandosi anche in un rapporto bilaterale la qualità di Stato laico della Repubblica italiana. Per intendere correttamente a qual titolo e con quali modalità sia conservato l’insegnamento di religione cattolica nelle scuole dello Stato non universitarie entro un quadro normativo rispettoso del principio supremo di laicità, giova esaminare le proposizioni che compongono il testo del denunciato art. 9, numero 2, della legge n. 121 del 1985.
Nella prima proposizione («La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principî del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado») sono individuabili quattro dati significativi: 1) il riconoscimento del valore della cultura religiosa; 2) la considerazione dei principî del cattolicesimo come parte del patrimonio storico del popolo italiano; 3) la continuità di impegno dello Stato italiano nell’assicurare, come precedentemente all’Accordo, l’insegnamento di religione nelle scuole non universitarie; 4) l’inserimento di tale insegnamento nel quadro delle finalità della scuola.
I dati sub 1), 2) e 4) rappresentano una novità coerente con la forma di Stato laico della Repubblica italiana.
6. Con l’art. 36 del Concordato del 1929 («L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica. E perciò consente che l’insegnamento religioso ora impartito nelle scuole pubbliche elementari abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie, secondo programmi da stabilirsi d’accordo tra la Santa Sede e lo Stato») lo Stato definiva l’insegnamento della dottrina cristiana, secondo la forma della tradizione cattolica, «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica». La formula «fondamento e coronamento» era apparsa nel regio decreto 1. ottobre 1923, n. 2185, all’art. 3, ed era limitata alla istruzione elementare. Dopo il complesso dibattito dell’età giolittiana e del primo dopoguerra, si ripristinava l’insegnamento obbligatorio di religione cattolica nelle scuole elementari, con quella formula dettata dal Ministro della pubblica istruzione Giovanni Gentile, che intendeva la religione fase preparatoria dell’educazione, philosophia minor della mente infantile, destinata ad essere superata nella maturazione successiva. La formula sara ripetuta, in identico contesto, dall’art. 25 del regio decreto 22 gennaio 1925, n. 432 e dall’art. 27 del regio decreto 5 febbraio 1928, n. 577. Nella vicenda dello Stato risorgimentale, la legge Casati del 1859 stabili l’insegnamento obbligatorio di religione cattolica nei ginnasî e licei (art. 193), negli istituti di istruzione tecnica (art. 278), nelle scuole elementari (artt. 315, 325); fino alle minuziose disposizioni degli artt. 66, 67, 68 e 183 del regio decreto 24 giugno 1860, n. 4151 (Regolamento per le scuole normali e magistrali degli aspiranti maestri e delle aspiranti maestre).
Significativa l’endiadi «La religione e la morale» con cui era indicata la prima delle nove materie di insegnamento nelle scuole normali governative elencate nell’art. 1 del regio decreto 9 novembre 1861, n. 315 (Regolamento per le scuole normali e magistrali e per gli esami di patente de’ maestri e delle maestre delle scuole primarie), così come ancora la collocazione al primo posto di «catechismo e storia sacra» tra le materie obbligatorie per gli esami sia scritti sia orali, nell’art. 22 dello stesso Regolamento.
7. Con legge 23 giugno 1877, n. 3918 (Legge che modifica l’ordinamento dei licei, dei ginnasi e delle scuole tecniche) l’ufficio di direttore spirituale in dette scuole è abolito (art. 1); la legge 15 luglio 1877, n. 3961 (Legge sull’obbligo dell’istruzione elementare) introduce nel corso elementare inferiore «le prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino», materia estesa dieci anni dopo ai due gradi dell’insegnamento elementare dall’art. 1 del regio decreto 16 febbraio 1888, n. 5292 (Regolamento unico per l’istruzione elementare), che all’art. 2 stabilisce, in sintomatica correlazione con il disposto dell’art. 1, che l’insegnamento religioso, fin allora obbligatorio, sarà fatto impartire solo «a quegli alunni, i cui genitori lo domandino». Codesto sistema, della religione a domanda dei genitori, sarà confermato nei due Regolamenti generali per l’istruzione elementare, del 1895 (art. 3 del regio decreto 9 ottobre 1895, n. 623) e del 1908 (art. 3 del regio decreto 6 febbraio 1908, n. 150). Quest’ultima norma, al secondo comma, prevedeva finanche l’insegnamento religioso «a cura dei padri di famiglia che lo hanno richiesto», quando la maggioranza dei consiglieri comunali non credesse di ordinarlo a carico del Comune. Esaurito il ciclo storico, prima, della strumentale utilizzazione della religione come sostegno alla morale comune, poi della opposizione positivistica tra religione e scienza, quindi della eticità dello Stato totalitario, allontanati gli ultimi relitti della contesa risorgimentale tra Monarchia e Papato, la Repubblica può, proprio per la sua forma di Stato laico, fare impartire l’insegnamento di religione cattolica in base a due ordini di valutazioni: a) il valore formativo della cultura religiosa, sotto cui s’inscrive non più una religione, ma il pluralismo religioso della società civile; b) l’acquisizione dei principî del cattolicesimo al «patrimonio storico del popolo italiano».
Il genus («valore della cultura religiosa») e la species («principî del cattolicesimo nel patrimonio storico del popolo italiano») concorrono a descrivere l’attitudine laica dello Stato-comunità, che risponde non a postulati ideologizzati e astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato-persona o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o a un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini.
8. L’insegnamento della religione cattolica sarà impartito, dice l’art. 9, «nel quadro delle finalità della scuola», vale a dire con modalità compatibili con le altre discipline scolastiche. La seconda proposizione dell’art. 9, numero 2, della legge n. 121 del 1985 («Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento») è di gran lunga la più rilevante dal punto di vista costituzionale.
Vi si richiama, in tema di insegnamento della religione cattolica, il rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, che trovano tutela nella Costituzione della Repubblica rispettivamente agli artt. 19 e 30.
Ma dinanzi a un insegnamento di una religione positiva impartito «in conformità alla dottrina della Chiesa», secondo il disposto del punto 5, lettera a), del Protocollo addizionale, lo Stato laico ha il dovere di salvaguardare che non ne risultino limitate la libertà di cui all’art. 19 della Costituzione e la responsabilità educativa dei genitori di cui all’art. 30.
Torna qui la logica strumentale propria dello Stato-comunità che accoglie e garantisce l’autodeterminazione dei cittadini, mediante il riconoscimento di un diritto soggettivo di scelta se avvalersi o non avvalersi del predisposto insegnamento della religione cattolica.
Tale diritto ha come titolari i genitori e, per le scuole secondarie superiori, direttamente gli studenti, in base all’art. 1, punto 1, della legge 18 giugno 1986, n. 281 (Capacità di scelte scolastiche e di iscrizione nelle scuole secondarie superiori).
Siffatta figura di diritto soggettivo non ha precedenti in materia.
Nella legge Casati del 1859, all’art. 222, per i ginnasî e i licei era prevista la dispensa «dal frequentare l’insegnamento religioso e dall’intervenire agli esercizî che vi si riferiscono» per gli alunni acattolici o per quelli «il cui padre, o chi ne fa legalmente le veci, avrà dichiarato di provvedere privatamente all’istruzione religiosa dei medesimi».
L’art. 374 della stessa legge riconosceva la dispensa per gli allievi delle scuole pubbliche elementari «i cui parenti avranno dichiarato di prendere essi stessi cura della loro istruzione religiosa».
Nel 1865, con il regio decreto n. 2498 del 1. settembre (Regolamento per le scuole mezzane e secondarie del Regno), all’art. 61 si disponeva: «Gli alunni debbono assistere alle funzioni religiose, se non hanno ottenuta regolare dispensa dal Preside o Direttore, sopra domanda per iscritto del padre dell’alunno o di chi legalmente lo rappresenta».
Dal 1888, con regio decreto 16 febbraio n. 5292 (Regolamento unico per l’istruzione elementare), l’insegnamento di religione diveniva non più obbligatorio, ma istituibile dai Comuni solo su richiesta dei genitori.
Nella restaurazione dell’insegnamento di religione nelle scuole elementari del 1923, ricompariva, all’art. 3 del regio decreto 1o ottobre n. 2185, l’esenzione per i fanciulli «i cui genitori dichiarano di volervi provvedere personalmente».
L’art. 112 del regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297 (Approvazione del regolamento generale sui servizî dell’istruzione elementare), aggiungeva l’ulteriore onere, per i genitori che chiedevano la dispensa cosi motivata, di indicare in che modo avrebbero provveduto alla istruzione privata di religione.
Il meccanismo della dispensa perdeva in seguito l’onere della motivazione, estendendosi il regime predisposto per i culti ammessi a tutti gli studenti.
L’art. 6 della legge 24 giugno 1929, n. 1159 (Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi), stabiliva: «I genitori o chi ne fa le veci possono chiedere la dispensa per i proprî figli dal frequentare i corsi di istruzione religiosa nelle scuole pubbliche» (cfr. anche l’art. 23 del regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289, Norme per l’attuazione della legge 24 giugno 1929, n. 1159, sui culti ammessi nello Stato e per il coordinamento di essa con le altre leggi dello Stato).
La legge 5 giugno 1930, n. 824 (Insegnamento religioso negli istituti medî d’istruzione classica, scientifica, magistrale, tecnica e artistica), all’art. 2 disponeva, infine: «Sono dispensati dall’obbligo di frequentare l’insegnamento religioso gli alunni, i cui genitori, o chi ne fa le veci, ne facciano richiesta per iscritto al capo dell’istituto all’inizio dell’anno scolastico».
È palese il passaggio da motivazioni proprie dell’età liberale (essere la religione affare privato e l’istruzione religiosa compito elettivamente paterno) a quelle dello Stato etico (essere la religione un connotato dell’identità nazionale da farsi maturare nella scuola di Stato).
Solo con l’Accordo del 18 febbraio 1984 emerge un carattere peculiare dell’insegnamento di una religione positiva: il potere suscitare, dinanzi a proposte di sostanziale adesione a una dottrina, problemi di coscienza personale e di educazione familiare, per evitare i quali lo Stato laico chiede agli interessati un atto di libera scelta.
Con la terza proposizione dell’art. 9, numero 2, dell’Accordo («All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione») il principio di laicità è in ogni sua implicazione rispettato grazie alla convenuta garanzia che la scelta non dia luogo a forma alcuna di discriminazione.
Il punto 5, numero 2, del Protocollo addizionale, non contiene disposizione immediata pertinente alla questione di causa e pertanto la fonte della doglianza non è rinvenibile nella normativa impugnata.
9. La previsione come obbligatoria di altra materia per i non avvalentisi sarebbe patente discriminazione a loro danno, perchè proposta in luogo dell’insegnamento di religione cattolica, quasi corresse tra l’una e l’altro lo schema logico dell’obbligazione alternativa, quando dinanzi all’insegnamento di religione cattolica si è chiamati a esercitare un diritto di libertà costituzionale non degradabile, nella sua serietà e impegnatività di coscienza, a opzione tra equivalenti discipline scolastiche.
Lo Stato è obbligato, in forza dell’Accordo con la Santa Sede, ad assicurare l’insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo.
Per quanti decidano di non avvalersene l’alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà costituzionale di religione.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata nei sensi di cui in motivazione la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione, dell’art. 9, punto (recte: numero) 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), e dell’art. (recte: punto) 5, lettera b), numero 2, del Protocollo addizionale, sollevata dal Pretore di Firenze con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 aprile 1989.
F.to:
Francesco SAJA, PRESIDENTE
Francesco Paolo CASAVOLA, REDATTORE
Depositata in cancelleria il 12/4/1989.